di Antonio Ciniero
Più o meno a
bassa voce, ma con sempre maggiore insistenza, da più parti si incomincia a
dire che il sistema di accoglienza italiano ed europeo non funziona. Non
funziona, se l’obiettivo è quello di tutelare la vita delle persone che partono
e garantire loro una reale accoglienza, degna di questo nome, e un reale inserimento
sociale. Rispetto a ciò, il sistema è del tutto fallimentare. Ed è un
fallimento drammatico: oltre 4 mila morti nel Mediterraneo (stima per difetto)
solo in quest’anno che volge al termine, a cui si aggiungono le morti dei
migranti in transito in altre situazioni: nel deserto, un fatto di cui stenta ad
arrivare persino l’eco in occidente, ma anche le tante morti e sparizioni che
avvengono a causa della chiusura dei confini interni della stessa Europa. In
diverse parti d’Europa migliaia di uomini, donne e bambini sostano in campi e
centri, in una lunga difficilissima attesa. Per quanto riguarda l’Italia, migliaia
di persone, nonostante siano destinatarie di forme di accoglienza (prima o
seconda), sono costrette a forme disumane di sfruttamento nei diversi settori
economici del paese, in particolare in quello agricolo, e crescono sempre più
anche le vittime di sfruttamento sessuale.
L’attuale
sistema di accoglienza italiano è pieno di contraddizioni. Non sorprende, visto
che si tratta di un sistema pensato nel 2011 e consolidatosi durante la
cosiddetta “Emergenza nord Africa”, quando era ministro dell’Interno Maroni
(Lega Nord). È un sistema che crea, inevitabilmente, contraddizioni. Perché
contradditorio è l’approccio europeo e italiano alle migrazioni, un approccio
in continua tensione tra esclusione ed inclusione, nella gran parte dei casi
subalterna, vedasi la retorica, che tanto terreno fertile ha trovato anche a
sinistra, del lavoro gratis dei rifugiati fatto per ricambiare l’accoglienza.
Un sistema
dove si verifica un processo di continua circolarità tra formale e informale,
in cui queste due dimensioni si sovrappongono in maniera tale da rendere
difficile dire dove finisce l’uno e dove inizia l’altro. I luoghi di
accoglienza istituzionali, i CARA, per esempio, in tutte le regioni
meridionali, sono, quasi sempre, contigui ai ghetti e ai campi nei quali
risiedono i braccianti sfruttati in agricoltura, e la gran parte di chi sta nei
CARA, per non dire la quasi totalità, lavora a condizioni di grave sfruttamento
proprio in agricoltura, in un sistema che sospende, in Italia, nel cuore
dell’Europa, i più elementari Diritti Umani. Questo è quello che abbiamo
rilevato in diverse indagini in Puglia, ma questo è quello che emerge anche dai
lavori di colleghi in Campania e in Sicilia.
Oggi, la
gestione dell’accoglienza dei richiedenti asilo ha importanti ricadute
economiche e colpisce drammaticamente la vita dei migranti, sia per responsabilità
europee, come il Trattato di Dublino, che italiane, ad iniziare dal fatto che
non abbiamo una legge organica in materia di asilo e che la legge che continua
a regolamentare le migrazioni è una delle peggiori d’Europa, la n. 189 del 2002,
la cosiddetta Bossi-Fini.
Gli Hotspot,
in questo sistema, sono la contraddizione più evidente e, nonostante ciò, il
prefetto Morcone si è affrettato a derubricare a “cretinaggini” le denunce di
Amnesty International - in parte riprese anche dal lavoro della Commissione straordinaria per la tutela e la
promozione dei Diritti Umani del Senato – e Alfano non ha ancora dato
nessuna risposta. In questi posti, così come pure nei sempre più numerosi
ghetti agricoli e urbani, la violazione dei diritti umani è all’ordine del
giorno.
È importante
denunciare pubblicamente queste cose come stanno facendo, tra gli altri, gli
attivisti di #overthefortress, che
stanno attraversando l’Italia e stanno denunciando queste situazioni. Si tratta
di questioni che vengono poste anche da sempre più numerosi gruppi di ricerca.
Sono critiche e denunce, radicali, come lo sono tutte quelle che mettono in
discussione il funzionamento di base di un sistema e che non possono che essere
tali se si vuole costruire un’alternativa seria e praticabile.
Credo che si
debba iniziare a dire nettamente, senza ambiguità alcuna, che il sistema di
accoglienza italiano, oggi, nel complesso, assolve la funzione a cui ieri
assolvevano le quote, i decreti flussi o il contratto di soggiorno: fare dei
cittadini stranieri dei soggetti resi istituzionalmente deboli, perennemente
ricattabili e di conseguenza maggiormente sfruttabili.
Le politiche
di chiusura delle frontiere, la restrizione dei canali d’ingresso regolare, la
precarizzazione della condizione giuridica degli stranieri e il mancato
riconoscimento dei diritti di cittadinanza nel nostro paese, ma la situazione
non è molto diversa negli altri paesi europei, fanno sì che si instauri una
dialettica tra stato e mercato, in cui i processi che costringono
all’irregolarità e all’esclusione, consegnano agli agenti economici un utile
strumento di svalorizzazione della forza lavoro: una situazione utilissima a
chi domanda lavoro, perché mette a disposizione una manodopera priva di diritti
da sottoremunerare ed utilizzare per incrementare i profitti.
Non bisogna
dimenticare che, quando si parla di cittadini immigrati in Italia, si parla di
circa 5 milioni di cittadini, molti dei quali qui da oltre un trentennio, e in
gran parte nati in Italia, che il nostro sistema giuridico continua a considerare
stranieri. Ancora oggi il parlamento italiano, malgrado i numerosi proclami, non
è stato in grado di approvare un legge che riconosca la cittadinanza a chi
nasce in Italia. Un ritardo ingiustificabile per un paese che è destinatario di
flussi migratori sin dagli anni ’70.
Per dare
risposte democratiche alle questioni politiche, economiche e sociali poste
dalla presenza dei cittadini migranti è essenziale superare la logica
dell’emergenza ed emanciparsi dalla filosofia dell’ordine pubblico. È
necessario partire da un ripensamento radicale delle politiche migratorie,
capovolgere la logica securitaria con cui ci si è approcciati alle migrazioni a
favore di una logica realmente inclusiva, che muova verso la prospettiva di un
riconoscimento di uguaglianza e pari opportunità.
Per muovere
in questa direzione, la costruzione di uno strumento politico e giuridico
maggiormente adeguato a dare risposte alla complessità del fenomeno migratorio
come un permesso di soggiorno per
ricerca di lavoro, valido sull’intero territorio dell’Unione Europea e la semplificazione delle procedure per il
rilascio di permessi umanitari e che facilitino anche i ricongiungimenti
familiari, anche questi validi sull’intero territorio europeo, dovrebbero
rappresentare un primo ed essenziale passo che le forze democratiche e
progressiste devono esigere senza alcun tentennamento o ambiguità, senza cedere
alla tentazione di chiudersi in anacronistici nazionalismi.
Nessun commento:
Posta un commento