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di Antonio
Ciniero
“Ho chiesto un dossier sui rom, faremo un
censimento, una ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti.”
Con queste
dichiarazioni Matteo Salvini lanciava lo scorso 18 giugno la sua ennesima
battaglia sulla questione rom, questa
volta da ministro dell’Interno. Qualche settimana dopo, il 6 luglio, il
governatore della Regione Lombardia dichiarava che “come esistono gli uffici
anagrafe che individuano tutti i cittadini residenti, analogamente si farà con
chi risiede nei campi.”
Discorsi a parte, è davvero difficile dire se
l’idea di un censimento rom sia solo paventata per guadagnare consenso
elettorale o sia un reale obiettivo del governo e della giunta lombarda, dal
momento che il censimento su base etnica è vietato dalla Costituzione Italiana.
È certo però che negli ultimi quindici anni, i rom –
complice anche il diffuso antiziganismo – sono stati
ciclicamente trasformati in oggetto e strumento di propaganda politica, su cui
scaricare la responsabilità di tensioni e problemi sociali lasciati irrisolti,
attraverso cui convogliare paure irrazionali e fomentare antagonismi che
chiamano in causa un passato che sembrava ormai superato.
Si sbaglierebbe tuttavia a pensare che siano state
sole le forze di destra a cavalcare la retorica securitaria costruita sulla
pelle dei rom. Anzi, ad onor del vero, rispetto alla storia recente, fu il
primo segretario del partito democratico, Walter Veltroni, nel 2007, a porre nuovamente
al centro del dibattito politico nazionale la questione rom, a seguito di un
doloroso avvenimento di cronaca nera: il brutale assassinio della signora
Giovanna Reggiani, consumato nella stazione di Tor di Quinto di Roma ad opera
di un ventiquattrenne di cittadinanza romena, residente in un campo informale poco
lontano. Quell’episodio travalicò rapidamente gli steccati della cronaca nera,
assumendo una forte connotazione politica e, a tratti, anche strumentalmente
ideologica, che animò il dibattito nell’intero paese. Veltroni, allora ancora
sindaco di Roma oltre che segretario del partito democratico, lanciò l’ennesimo
allarme sicurezza e il governo,
presieduto da Romano Prodi, introdusse limitazioni all’ingresso e al soggiorno
in Italia per i cittadini romeni, da pochi mesi divenuti cittadini comunitari. Nel
maggio del 2008, il nuovo governo con maggioranza di centro-destra, guidato da
Silvio Berlusconi, arrivò ad emanare un decreto con il quale si sanciva in
Italia l’esistenza di un’emergenza nomadi.
Quel decreto diede poteri speciali ai prefetti di Roma, Napoli e Milano per
affrontare la presunta emergenza, conferendogli, tra l’altro, la possibilità di
gestire ingenti somme di denaro pubblico in deroga alle procedure ordinarie
previste dalle leggi (con tutto quello che da ciò è conseguito, ovvero “Mafia Capitale”).
E fu proprio nel solco dell’emergenza
nomadi che si diede il via alla schedatura con foto e rilevamento delle impronte
digitali di una parte dei rom che vivevano nei campi di Roma, Napoli e Milano,
inclusi i bambini. Si trattò, nei fatti, di un vero e proprio tentativo di censimento
etnico, che riguardò tutti (apolidi, cittadini italiani, comunitari), eseguito
prima dalla Croce rossa, poi dalla Polizia di Stato, condannato, oltre che da
larghe parti della società civile, da una sentenza del 24/5/2013 emanata dalla
seconda sezione civile del Tribunale Ordinario di Roma.
In Italia sono tanti gli esponenti politici e le forze
politiche che parlano spesso di rom senza avere minimamente cognizione della
realtà in cui questi cittadini vivono. Nel discorso pubblico la questione rom è declinata quasi esclusivamente
in termini securitari: parlare di rom equivale a parlare di devianza e di campi. È un discorso nel quale
l’intrinseca complessità che caratterizza i gruppi rom non trova alcuno spazio.
I gruppi rom
sono galassia eterogena, conosciuta perlopiù solo sulla base di stereotipi che
semplificano, reificano e falsificano la realtà. Per esempio, pochi sanno che dei circa 180 mila rom e sinti stimati in Italia (sono
solo 0,2% della popolazione italiana), oltre la metà ha la cittadinanza
italiana. Sulla base delle ultime rilevazioni, in Italia, a vivere nei campi è
solo una minoranza dei cittadini rom, tra le 26 mila e 30 mila persone circa,[1]
vale a dire lo 0,04% della popolazione italiana. La maggioranza dei rom sono
cittadini italiani che vivono in normali abitazioni. Senza dimenticare che molti
di questi cittadini rom discendono da famiglie presenti in Italia sin dal 1400:
quelli che, secondo il ministro Salvini, purtroppo
dobbiamo tenerci.
La storia dei gruppi rom presenti in Italia è una
storia italiana, profondamente connessa con quella dei luoghi in cui hanno
vissuto. Sono tanti i rom che hanno preso parte alla resistenza al
nazifascismo, così come sono stati tanti i rom italiani internati nei campi di
concentramento nazifascisti, un internamento reso operativamente possibile
dalla schedatura etnico razziale degli
zingari italiani e dalle leggi
razziali del 1938. Una storia, ancora, poco conosciuta nel nostro paese. Basti
pensare che i rom e sinti non sono nemmeno nominati nella legge n. 211 del 2000
che in Italia istituisce la Giornata della Memoria. Eppure oltre cinquecento
mila rom e sinti sono stati sterminati nei campi di concentramento
nazifascisti.
I gruppi
rom sono caratterizzati da un’estrema eterogeneità in termini di elaborazioni
culturali, condizioni sociali, appartenenza religiosa, provenienza geografica. Sono
gruppi molto stratificati al loro interno, sia in termini sociali che
economici. Nonostante questa grande
varietà di condizioni, considerare i rom come appartenenti a gruppi con
caratteristiche culturali e condizioni economico-sociali comuni è stato e
continua ad essere un approccio piuttosto diffuso, soprattutto nell’azione
politica delle nostre istituzioni pubbliche. Un’operazione resa possibile
grazie all’uso
reificante, in ambito politico ed amministrativo, della categoria di nomadi che, oltre a ingabbiare in
un’identità omogenea una galassia di
minoranze assai eterogenee tra loro e di persone, ha contribuito e
contribuisce a separarli, nell’immaginario collettivo e sul piano delle azioni
politiche, dal resto della popolazione.
Sono state,
infatti, le leggi regionali, emanate soprattutto da amministrazioni
progressiste, che, a partire dagli anni Ottanta, proprio sulla base del presunto
nomadismo, hanno creato i campi nomadi.
Aree di sosta, pensate inizialmente per promuovere
e proteggere i sinti giostrai, ma poi usate come strumento unico per gestire
il problema abitativo di tanti altri gruppi rom: di quelli itineranti e di
quelli stanziali, di quelli con cittadinanza italiana così come di quelli
provenienti dall’est europeo, prima dai Paesi dalla ex-Jugoslavia (molti dei
quali apolidi e profughi di guerra, soprattutto i kosovari arrivati in Italia
dopo il 1996) e poi dalla Romania e dalla Bulgaria. L’Italia è l’unico paese in Europa ad aver utilizzato la forma
del campo sosta quale soluzione abitativa destinata ai rom, istituendo, nei
fatti, un sistema abitativo parallelo strutturato su base etnica, tanto che nel
2000 l’European Roma Right Centre ha
definito l’Italia il paese dei campi[2].
I campi rom,
informali o istituzionali, sono l’emblema di una cittadinanza mancata. Rappresentano
la materializzazione di uno stato di eccezione divenuto permanente. Quando i
Comuni mettono a disposizione aree attrezzate destinate ai campi, la logica, a
volte inconsapevole, che li ispira è quella di proteggere simbolicamente il
resto del territorio. Le dinamiche interne a questi luoghi, le modalità di
accesso ai servizi e ai diritti, la stessa possibilità di comunicazione con
l’esterno sono elementi che incidono profondamente sulle aspettative e sulla mortificazione del sé di chi ci vive
dentro e pregiudica anche l’immagine che il resto della popolazione ha dei
gruppi rom, contribuendo ad alimentare pregiudizi e distanza sociale. I campi,
infatti, non solo non offrono alcuna risorsa per chi li abita, ma spesso
escludono da ogni possibilità d’interagire positivamente con il tessuto sociale
circostante. È per questo motivo che la Strategia Nazionale per l’Integrazione
dei i Rom, Sinti e Caminanti si pone tra i propri obiettivi il superamento dei
campi sosta monoetnici. Un obiettivo ancora totalmente disatteso dal nostro
paese: anzi, laddove sono state poste in essere azioni di superamento queste
hanno conosciuto, quasi sempre, solo la forma dello sgombero, attuato spesso in
violazione dei diritti umani fondamentali, come avvenuto nel recente caso dello
sgombero del Camping River di Roma, dove famiglie con minori sono state
abbandonate per strada, dopo essere state costrette ad assistere alla
distruzione e alla vandalizzazione dei container nei quali vivevano.
La forma del campo è oggi divenuta un paradigma che
continua ad essere utilizzato dai decisori pubblici, e non solo rispetto ai
rom, si pensi alla situazione dei miranti. Bisogna non costruire più campi, a
differenza di quanto si continua a fare, proporre, progettare.
Per superare i campi rom, queste moderne baraccopoli, non
occorrono censimenti, schedature, fotosegnalazioni, ruspe. Occorrono,
esattamente come per tutti gli altri cittadini, politiche sociali capaci di
contrastare le forme di esclusione sociale di cui una parte dei rom è vittima. Non
sgomberi, ma politiche di contrasto alla povertà, accesso al lavoro
regolare, accesso all’edilizia residenziale pubblica, forme di sostegno
all’affitto, formazione professionale, sostegno alla scolarizzazione fino ai
livelli più alti.
[1] Si vedano i dati del Rapporto
Annuale 2017 dell’Associazione 21 luglio (http://www.21luglio.org/21luglio/rapporto-annuale-2017/)
e i dati dell’indagine indagine Gli
insediamenti Rom, Sinti e Caminanti in Italia (http://www.cittalia.it/images/Gli_insediamenti_Rom_Sinti_e_Caminanti_in_iItalia_.pdf).
[2] È possibile leggere il
report a questo indirizzo
http://www.errc.org/reports-and-submissions/il-paese-dei-campi
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