mercoledì 11 luglio 2018

La politica del disprezzo: Salvini e il censimento rom



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di Antonio Ciniero


“Ho chiesto un dossier sui rom, faremo un censimento, una ricognizione sui rom in Italia per vedere chi, come, quanti.”

 Con queste dichiarazioni Matteo Salvini lanciava lo scorso 18 giugno la sua ennesima battaglia sulla questione rom, questa volta da ministro dell’Interno. Qualche settimana dopo, il 6 luglio, il governatore della Regione Lombardia dichiarava che “come esistono gli uffici anagrafe che individuano tutti i cittadini residenti, analogamente si farà con chi risiede nei campi.”
Discorsi a parte, è davvero difficile dire se l’idea di un censimento rom sia solo paventata per guadagnare consenso elettorale o sia un reale obiettivo del governo e della giunta lombarda, dal momento che il censimento su base etnica è vietato dalla Costituzione Italiana. È certo però che negli ultimi quindici anni, i rom – complice anche il diffuso antiziganismo – sono stati ciclicamente trasformati in oggetto e strumento di propaganda politica, su cui scaricare la responsabilità di tensioni e problemi sociali lasciati irrisolti, attraverso cui convogliare paure irrazionali e fomentare antagonismi che chiamano in causa un passato che sembrava ormai superato.

Si sbaglierebbe tuttavia a pensare che siano state sole le forze di destra a cavalcare la retorica securitaria costruita sulla pelle dei rom. Anzi, ad onor del vero, rispetto alla storia recente, fu il primo segretario del partito democratico, Walter Veltroni, nel 2007, a porre nuovamente al centro del dibattito politico nazionale la questione rom, a seguito di un doloroso avvenimento di cronaca nera: il brutale assassinio della signora Giovanna Reggiani, consumato nella stazione di Tor di Quinto di Roma ad opera di un ventiquattrenne di cittadinanza romena, residente in un campo informale poco lontano. Quell’episodio travalicò rapidamente gli steccati della cronaca nera, assumendo una forte connotazione politica e, a tratti, anche strumentalmente ideologica, che animò il dibattito nell’intero paese. Veltroni, allora ancora sindaco di Roma oltre che segretario del partito democratico, lanciò l’ennesimo allarme sicurezza e il governo, presieduto da Romano Prodi, introdusse limitazioni all’ingresso e al soggiorno in Italia per i cittadini romeni, da pochi mesi divenuti cittadini comunitari. Nel maggio del 2008, il nuovo governo con maggioranza di centro-destra, guidato da Silvio Berlusconi, arrivò ad emanare un decreto con il quale si sanciva in Italia l’esistenza di un’emergenza nomadi. Quel decreto diede poteri speciali ai prefetti di Roma, Napoli e Milano per affrontare la presunta emergenza, conferendogli, tra l’altro, la possibilità di gestire ingenti somme di denaro pubblico in deroga alle procedure ordinarie previste dalle leggi (con tutto quello che da ciò è conseguito, ovvero “Mafia Capitale”). E fu proprio nel solco dell’emergenza nomadi che si diede il via alla schedatura con foto e rilevamento delle impronte digitali di una parte dei rom che vivevano nei campi di Roma, Napoli e Milano, inclusi i bambini. Si trattò, nei fatti, di un vero e proprio tentativo di censimento etnico, che riguardò tutti (apolidi, cittadini italiani, comunitari), eseguito prima dalla Croce rossa, poi dalla Polizia di Stato, condannato, oltre che da larghe parti della società civile, da una sentenza del 24/5/2013 emanata dalla seconda sezione civile del Tribunale Ordinario di Roma.

In Italia sono tanti gli esponenti politici e le forze politiche che parlano spesso di rom senza avere minimamente cognizione della realtà in cui questi cittadini vivono. Nel discorso pubblico la questione rom è declinata quasi esclusivamente in termini securitari: parlare di rom equivale a parlare di devianza e di campi. È un discorso nel quale l’intrinseca complessità che caratterizza i gruppi rom non trova alcuno spazio. I gruppi rom sono galassia eterogena, conosciuta perlopiù solo sulla base di stereotipi che semplificano, reificano e falsificano la realtà. Per esempio, pochi sanno che dei circa 180 mila rom e sinti stimati in Italia (sono solo 0,2% della popolazione italiana), oltre la metà ha la cittadinanza italiana. Sulla base delle ultime rilevazioni, in Italia, a vivere nei campi è solo una minoranza dei cittadini rom, tra le 26 mila e 30 mila persone circa,[1] vale a dire lo 0,04% della popolazione italiana. La maggioranza dei rom sono cittadini italiani che vivono in normali abitazioni. Senza dimenticare che molti di questi cittadini rom discendono da famiglie presenti in Italia sin dal 1400: quelli che, secondo il ministro Salvini, purtroppo dobbiamo tenerci.  
La storia dei gruppi rom presenti in Italia è una storia italiana, profondamente connessa con quella dei luoghi in cui hanno vissuto. Sono tanti i rom che hanno preso parte alla resistenza al nazifascismo, così come sono stati tanti i rom italiani internati nei campi di concentramento nazifascisti, un internamento reso operativamente possibile dalla schedatura etnico razziale degli zingari italiani e dalle leggi razziali del 1938. Una storia, ancora, poco conosciuta nel nostro paese. Basti pensare che i rom e sinti non sono nemmeno nominati nella legge n. 211 del 2000 che in Italia istituisce la Giornata della Memoria. Eppure oltre cinquecento mila rom e sinti sono stati sterminati nei campi di concentramento nazifascisti. 

I gruppi rom sono caratterizzati da un’estrema eterogeneità in termini di elaborazioni culturali, condizioni sociali, appartenenza religiosa, provenienza geografica. Sono gruppi molto stratificati al loro interno, sia in termini sociali che economici. Nonostante questa grande varietà di condizioni, considerare i rom come appartenenti a gruppi con caratteristiche culturali e condizioni economico-sociali comuni è stato e continua ad essere un approccio piuttosto diffuso, soprattutto nell’azione politica delle nostre istituzioni pubbliche. Un’operazione resa possibile grazie all’uso reificante, in ambito politico ed amministrativo, della categoria di nomadi che, oltre a ingabbiare in un’identità omogenea una galassia di minoranze assai eterogenee tra loro e di persone, ha contribuito e contribuisce a separarli, nell’immaginario collettivo e sul piano delle azioni politiche, dal resto della popolazione.
Sono state, infatti, le leggi regionali, emanate soprattutto da amministrazioni progressiste, che, a partire dagli anni Ottanta, proprio sulla base del presunto nomadismo, hanno creato i campi nomadi. Aree di sosta, pensate inizialmente per promuovere e proteggere i sinti giostrai, ma poi usate come strumento unico per gestire il problema abitativo di tanti altri gruppi rom: di quelli itineranti e di quelli stanziali, di quelli con cittadinanza italiana così come di quelli provenienti dall’est europeo, prima dai Paesi dalla ex-Jugoslavia (molti dei quali apolidi e profughi di guerra, soprattutto i kosovari arrivati in Italia dopo il 1996) e poi dalla Romania e dalla Bulgaria. L’Italia è l’unico paese in Europa ad aver utilizzato la forma del campo sosta quale soluzione abitativa destinata ai rom, istituendo, nei fatti, un sistema abitativo parallelo strutturato su base etnica, tanto che nel 2000 l’European Roma Right Centre ha definito l’Italia il paese dei campi[2].

I campi rom, informali o istituzionali, sono l’emblema di una cittadinanza mancata. Rappresentano la materializzazione di uno stato di eccezione divenuto permanente. Quando i Comuni mettono a disposizione aree attrezzate destinate ai campi, la logica, a volte inconsapevole, che li ispira è quella di proteggere simbolicamente il resto del territorio. Le dinamiche interne a questi luoghi, le modalità di accesso ai servizi e ai diritti, la stessa possibilità di comunicazione con l’esterno sono elementi che incidono profondamente sulle aspettative e sulla mortificazione del sé di chi ci vive dentro e pregiudica anche l’immagine che il resto della popolazione ha dei gruppi rom, contribuendo ad alimentare pregiudizi e distanza sociale. I campi, infatti, non solo non offrono alcuna risorsa per chi li abita, ma spesso escludono da ogni possibilità d’interagire positivamente con il tessuto sociale circostante. È per questo motivo che la Strategia Nazionale per l’Integrazione dei i Rom, Sinti e Caminanti si pone tra i propri obiettivi il superamento dei campi sosta monoetnici. Un obiettivo ancora totalmente disatteso dal nostro paese: anzi, laddove sono state poste in essere azioni di superamento queste hanno conosciuto, quasi sempre, solo la forma dello sgombero, attuato spesso in violazione dei diritti umani fondamentali, come avvenuto nel recente caso dello sgombero del Camping River di Roma, dove famiglie con minori sono state abbandonate per strada, dopo essere state costrette ad assistere alla distruzione e alla vandalizzazione dei container nei quali vivevano.
La forma del campo è oggi divenuta un paradigma che continua ad essere utilizzato dai decisori pubblici, e non solo rispetto ai rom, si pensi alla situazione dei miranti. Bisogna non costruire più campi, a differenza di quanto si continua a fare, proporre, progettare.
Per superare i campi rom, queste moderne baraccopoli, non occorrono censimenti, schedature, fotosegnalazioni, ruspe. Occorrono, esattamente come per tutti gli altri cittadini, politiche sociali capaci di contrastare le forme di esclusione sociale di cui una parte dei rom è vittima. Non sgomberi, ma politiche di contrasto alla povertà, accesso al lavoro regolare, accesso all’edilizia residenziale pubblica, forme di sostegno all’affitto, formazione professionale, sostegno alla scolarizzazione fino ai livelli più alti.



[1] Si vedano i dati  del Rapporto Annuale 2017 dell’Associazione 21 luglio (http://www.21luglio.org/21luglio/rapporto-annuale-2017/) e i dati dell’indagine indagine Gli insediamenti Rom, Sinti e Caminanti in Italia (http://www.cittalia.it/images/Gli_insediamenti_Rom_Sinti_e_Caminanti_in_iItalia_.pdf).
[2] È possibile leggere il report a questo indirizzo http://www.errc.org/reports-and-submissions/il-paese-dei-campi


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