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lunedì 27 febbraio 2023

Stragi in mare e scafisti. Come si crea il mostro da sbattere in prima pagina

 


di Antonio Ciniero

È salito ancora il numero delle vittime dell’ultima tragedia del mare. In questo momento sono oltre 60 le persone morte a causa delle politiche di chiusura delle frontiere. 

La rotta che collega le coste della Turchia con quelle della Calabria non è nuova, in epoca contemporanea è solcata almeno dalla metà degli anni Novanta, quando a percorrerla erano soprattutto profughi curdi in fuga dell’oppressione del governo turco. È proprio lungo quella rotta che, alla fine degli anni Novanta, approdò sulle coste di Riace un gruppo di profughi curdi. Fu l’accoglienza che si attivò per quelle persone che portò alla nascita di quello che poi sarebbe diventato il modello Riace. Ma questa è un’altra storia. 

Il racconto pubblico di questa ennesima tragedia continua a riproporre il solito copione ipocrita che vede questa tragedia come mera conseguenza dell’azione di scafisti senza scrupoli. 

Scafisti, trafficanti di esseri umani, taxi del mare… sono etichette divenute ormai egemoni nel discorso pubblico sulle migrazioni, un vero e proprio frame che condiziona leggi, dichiarazioni di esponenti politici, affermazioni di ministri della repubblica, articoli di giornali e servizi televisivi.  Etichette che semplificano la realtà, introdotte dalla destra, ma fatte subito proprie anche della sinistra, soprattutto quando ha avuto responsabilità di governo. Non possiamo non ricordare che fu proprio un governo di centro sinistra ad iniziare la guerra alle ONG, che nel giro di pochi mesi da angeli del mare divennero collusi con gli scafisti.

Se vogliamo provare quantomeno a non essere ipocriti, se vogliamo provare ad onorare la memoria di queste ulteriori 60 persone, dobbiamo avere il coraggio di dire che quelle morti ci chiamano tutti in causa, perché sono conseguenza diretta del modo in cui i paesi dell’UE e l’Italia hanno deciso di approcciare la governance delle migrazioni nell’ultimo quarantennio. Non possiamo continuare ad accettare l’idea che quelle morti siano solo causa di pericolosi scafisti.

Dobbiamo avere il coraggio di dire che lo scafista sta alle tragedie in mare, come il caporale sta allo sfruttamento. Non ne sono la causa, sono solo uno degli elementi che concorrono al perpetuarsi e l’esacerbarsi dei due fenomeni. 

Così come il sistema del caporalato diviene tanto più pervasivo, quanto più sono ampi i “vuoti istituzionali”, vale a dire, quanto meno sono garantiti dalle istituzioni pubbliche i servizi che, per legge, dovrebbero essere assicurati ai lavoratori. Allo stesso modo, il ricorrere ad organizzazioni che gestiscono canali irregolari di ingresso diviene una scelta obbligata per quanti sono posti nella condizione di non avere la possibilità di intraprendere un viaggio in condizione di regolarità. Sia che si tratti di cosiddetti migranti economici, che provano a cercare altrove quelle opportunità che sono negate in patria, sia, a maggior ragione, per chi è costretto alla fuga da situazioni di guerre, conflitti o disastri ambientali. 

Gli scafisti (come i caporali) sono diventati nel discorso pubblico italiano un facile capro espiatorio, secondo il consolidato meccanismo della costruzione del “mostro” da sbattere in prima pagina, a cui addossare le colpe di fenomeni strutturali che non si vogliono affrontare in maniera adeguata e, al contempo, guadagnare consenso (sociale ed elettorale) sulla vita dei soggetti più deboli, financo sulla vita dei bambini, come è avvenuto ieri nelle acque di Cutro. 

Scafisti e caporali sono figure molto più articolate di quanto non lo siano raffigurati nel discorso mainstreaming. Così come non esiste un solo tipo di caporalato, ma un sistema eterogeneo che va da chi si “limita” a prendere dai lavoratori pochi in euro in cambio del servizio di trasporto, fino a chi riduce, attraverso la violenza, in condizioni paraschiavili i lavoratori, allo stesso modo, gli scafisti non sono una realtà omogenea e monolitica, non ci sono solo criminali a condurre i natanti. In non pochi casi a guidare una delle tante barche cariche si speranza e disperazione può essere un pescatore o, semplicemente, una persona che sa guidare un’imbarcazione. 
Anzi, come è emerso anche da diverse attività di ricerca, può succedere, ad esempio, che le organizzazioni di criminali affidino la guida di un’imbarcazione, il più delle volte malmessa, a uno dei migranti che è in grado di farlo: questo permette al consorzio criminale di non avere problemi nel caso la barca sia intercettata, perché non vengono “presi” i suoi uomini  e a chi conduce la barca permette di viaggiare senza pagare le cifre esorbitanti che le organizzazioni pretendono come “costo del biglietto”. 
Nel corso degli anni di ricerca mi è anche capitato di intervistare un giovane ragazzo che si è ritrovato suo malgrado a fare da scafista, o meglio, da capitano della barca come preferiva definirsi lui. 
Il suo racconto credo possa servire a smontare le retoriche che ammantano i discorsi pubblici sulla governance delle migrazioni, quelle stesse retoriche che provano surrettiziamente ad addossare la causa delle tragedie del mare solo a chi organizza i viaggi lasciando così libera la coscienza di chi, attraverso le leggi, crea le condizioni affinché quelle tragedie si verifichino. 

Il racconto che mi fece quasi dieci anni fa un ragazzo è questo: 

“Quando sono salito sulla barca che dalla Libia mi avrebbe dovuto portare in Italia era la prima volta che vedevo il mare. Nel mio paese il mare non c’è, ero emozionato e spaventato nel vedere questa enorme distesa di acqua…l’ho assaggiata per vedere se fosse veramente salata, e lo era, ricordo di aver sputato subito tutto! Il viaggio in barca è stato duro, è durato più di una settimana. Eravamo una cinquantina, c’erano anche donne e bambini. Ad un certo punto il capitano che guidava la barca si è sentito male e così la barca ha iniziato ad andare alla deriva. Siamo rimasti alla deriva per più di un giorno intero e sulla barca tutti hanno iniziato ad avere paura, iniziavano a mancare anche acqua e cibo e non sapevamo cosa fare. Così ho preso in mano la situazione e ho provato a mettermi al timone. Era la prima volta e quando ho accelerato ho rischiato quasi di far capovolgere la barca, ma poi, piano piano, ho capito come fare, e ho iniziato a guidare la barca. Non sapevo dove stessimo andando, eravamo in mezzo al mare, vedevamo solo acqua, ma ad un certo punto un grande pesce si è avvicinato alla barca, credo fosse un delfino. Non so se sia stato Dio, io credo di sì, ma quel pesce ci ha guidato… è sempre stato al fianco della nostra barca, finché non abbiamo visto terra. Una volta arrivati sulla spiaggia di quel paese, che poi ho scoperto chiamarsi Cassibile, siamo stati aiutati dalle persone che erano sulla spiaggia, io ho guardato l’orizzonte per rivedere e salutare il grande pesce che ci aveva condotto in salvo, ma non c’era più”. 

Questo racconto è uno di quelli che conservo con più emozione nella memoria e a cui penso spesso perché ci aiuta a capire quanto sia pericoloso il continuo tentativo di creazione di mostri. Se quel giorno sulla spiaggia di Cassibile il protagonista di questo racconto fosse stato intercettato dalle forze dell’ordine, anziché dai bagnanti che hanno soccorso lui e i suoi compagni di viaggio, sarebbe probabilmente diventato “un pericoloso scafista” e non l’uomo, divenuto eroe suo malgrado, che ha portato in salvo circa cinquanta persone e che oggi è impegnato nella difesa dei diritti dei più deboli, italiani e stranieri. 
Questo racconto è importante anche perché ci permette di capire che, sebbene sia più semplice vedere un mostro nello scafista, nel criminale, la verità è che le leggi democratiche degli Stati e la propaganda che le hanno accompagnate sono riuscite nell’intento di creare creato un mostro apparentemente invisibile che continua a nutrirsi della vita di innocenti e che su quelle vite impunemente costruisce potere politico, inventando inesistenti invasioni per guadagnare consenso elettorale. Tutto ciò non è mai stato accettabile, tutto ciò non può continuare ad essere accettato.
 
Se gli Stati vogliono fermare l’eccidio che continua da quarant’anni nel Mediterraneo, hanno tutti gli strumenti per farlo: basta cambiare le leggi, renderle ragionevoli, prevedendo i meccanismi di ingresso regolari che, ad oggi, ancora mancano e, soprattutto, rispettose della vita umana.