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domenica 18 dicembre 2016

Il campo come paradigma.
Rom stranieri in Italia: una storia di migrazione e di mancata cittadinanza



Articolo scritto in occasione della 
Giornata Internazionale del Migrante


Antonio Ciniero

Dei circa 180 mila rom e sinti stimati in Italia, quasi la metà non ha la cittadinanza italiana. Si tratta quindi di migranti, oppure di figli e nipoti di migranti. Per quanto riguarda la storia recente, è in particolare dalla fine degli anni ’70 del Novecento che i rom iniziano a giungere in Italia, sulla scia dei più generali flussi migratori che, a partire da quel periodo, interessano con maggiore sistematicità il paese. Partono per le motivazioni classiche che spingono tutti i soggetti alla migrazione: la possibilità di trovare un lavoro, il semplice desiderio di conoscere un nuovo posto, la volontà di creare una vita migliore per sé o per i propri figli, di costruirsi una casa.
Come nel caso di altre fasi migratorie, vecchie e nuove, anche tra i rom non manca chi è stato costretto ad abbandonare le proprie case a causa della guerra, o per problematiche politiche e sociali innescate da conflitti interni al paese di provenienza. È il caso della gran parte dei rom stranieri arrivati in Italia dalla ex-Jugoslavia fino gli anni ’90 del secolo scorso. Si tratta di un flusso migratorio che si intensifica negli anni delle guerre che insanguinano il paese dopo la morte di Tito e soprattutto tra il ’96 e il ’99, con la guerra in Kosovo. Profughi, proprio come buona parte dei migranti che oggi cercano di raggiungere le coste europee, alcuni dei quali sono riusciti, oggi come ieri, ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato politico.

sabato 10 dicembre 2016

68 anni dalla sottoscrizione della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo


di Antonio Ciniero


Sono 30 gli articoli che sanciscono i Diritti fondamentali dell’Uomo che il 10 dicembre del 1948 le Nazioni Unite hanno sottoscritto a Parigi adottando la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo.

Oggi, dopo 68 anni, quella dichiarazione è ancora lontana dall’essere pienamente applicata anzi, continua ad essere sistematicamente violata, e non solo nei paesi non democratici ma anche in Italia e in Europa, culla di quei diritti.

È stata violata, solo quest’anno, per oltre 4 mila volte, tanti i corpi, stima per difetto, finiti nel fondo del Mediterraneo a causa delle politiche migratorie europee che impediscono ai cittadini di muoversi liberamente.

venerdì 2 dicembre 2016

Accoglienza o esclusione? Alcune considerazioni sul sistema di accoglienza italiano #overthefortress


di Antonio Ciniero

Più o meno a bassa voce, ma con sempre maggiore insistenza, da più parti si incomincia a dire che il sistema di accoglienza italiano ed europeo non funziona. Non funziona, se l’obiettivo è quello di tutelare la vita delle persone che partono e garantire loro una reale accoglienza, degna di questo nome, e un reale inserimento sociale. Rispetto a ciò, il sistema è del tutto fallimentare. Ed è un fallimento drammatico: oltre 4 mila morti nel Mediterraneo (stima per difetto) solo in quest’anno che volge al termine, a cui si aggiungono le morti dei migranti in transito in altre situazioni: nel deserto, un fatto di cui stenta ad arrivare persino l’eco in occidente, ma anche le tante morti e sparizioni che avvengono a causa della chiusura dei confini interni della stessa Europa. In diverse parti d’Europa migliaia di uomini, donne e bambini sostano in campi e centri, in una lunga difficilissima attesa. Per quanto riguarda l’Italia, migliaia di persone, nonostante siano destinatarie di forme di accoglienza (prima o seconda), sono costrette a forme disumane di sfruttamento nei diversi settori economici del paese, in particolare in quello agricolo, e crescono sempre più anche le vittime di sfruttamento sessuale.

mercoledì 2 novembre 2016

Quando il razzismo è esibito. Il caso di Gorino e le contraddizioni italiane





Antonio Ciniero

articolo pubblicato in R-Project


Diceva Malcom X che se non fossimo stati attenti, i media ci avrebbero fatto odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono.
Eppure quello che è accaduto a Gorino il 24 ottobre va molto al di là di quella che può essere solo una responsabilità dei media, del clima di intolleranza costruito in Italia. Chiama in causa responsabilità di tutti, ad iniziare da chi ha permesso che tutto ciò potesse accadere.

Probabilmente anche quella che descrive Gorino come una comunità compatta e unita nel razzismo è un’immagine, in parte, costruita e semplificata dal racconto mediatico (sia mainstream che dei social), ma bisogna prendere atto che, fino ad oggi, la voce della solidarietà - quella della gente comune, dalla cosiddetta società civile alle parrocchie, dai collettivi alle associazioni, quella insomma che si è storicamente attivata per supplire alle carenze istituzionali dello stato, e che abbiamo conosciuto, per quanto riguarda l’accoglienza a cittadini stranieri, sin dal marzo del 1991, quando gli uomini e le donne del brindisino accolsero gli albanesi giunti nel porto della loro città – ecco, quella solidarietà a Gorino sembra essere scomparsa o, se esiste, non ha trovato spazio per esprimersi. Per lo meno pubblicamente.

mercoledì 12 ottobre 2016

Oltre il campo sosta e il ghetto: due esperienze di ricerca etnografica e visuale nel Salento




di Antonio Ciniero* e Ilaria Papa**

Ahmet -  Fonte: fermo-immagine tratto dal documentario in lavorazione sul lavoro braccintile    

Articolo pubblicato in Mondi Migranti, n. 2/2016 

Introduzione

L’articolo[1] presenta alcune riflessioni sul rapporto tra metodologie visuali e studi migratori. Si tratta di considerazioni sviluppate a partire dall’esperienza maturata nell’ambito di due indagini sociologiche: la prima, realizzata tra il 2008 e il 2011, ha coinvolto un gruppo di cittadini rom alloggiati nel campo sosta Panareo di Lecce; la seconda, iniziata nella primavera del 2015 e tuttora in corso, alcuni braccianti impegnati nella raccolta stagionale agricola che ha il suo epicentro nella cittadina di Nardò (Le). Le indagini riprendono, e in qualche modo continuano, un percorso di ricerca, ispirato ai principi metodologici dell’action-research (Lewin, 1946; Lapassade, 1991; Barbier, 2007), iniziato sul finire degli anni Ottanta, nel caso dei cittadini rom, e nei primi anni Novanta, per i braccianti, dal gruppo di ricerca in parte confluito nell’International Center of Interdisciplinary Studies on Migration (Icismi) dell’Università del Salento.  
Allora come oggi, ci si è confrontati con gruppi di cittadini di origine straniera inseriti in una condizione di forte marginalità sociale, la cui presenza sul territorio, nel corso di trent’anni, è stata gestita dalle istituzioni locali come una perenne emergenza, da non mostrare all’opinione pubblica, se non secondo sperimentati copioni narrativi in cui, media, da una parte, e attori politici ed economici dall’altra, hanno costruito e veicolato un’immagine semplicistica e stereotipata dei due contesti e dei soggetti che li abitano.

lunedì 3 ottobre 2016

3 ottobre: il ricordo non basta!



Credit: Laszlo Balogh



In questo 3 ottobre, ricordiamo le tante, le troppe, vite ingoiate dal Mar Mediterraneo. Ma oltre a ricordare, l’Italia e l’Europa farebbero bene ad attrezzarsi – e il prima possibile, visto che sono già in ritardo di almeno trent’anni - per permettere finalmente a chi parte di giungere vivo e incolume in Europa.
Le morti nel Mediterraneo non sono un incidente, né una tragica fatalità. Non sono nemmeno conseguenza di scafisti senza scrupoli, come spesso la stampa ci ripete. Le morti nel Mediterraneo sono conseguenza diretta e immediata delle politiche migratorie europee (e italiane).
Per evitarle occorrerebbe poco: nell’immediato basterebbe l’apertura di corridoi umanitari, seguita, in breve tempo, dalla riformulazione delle politiche in materia di migrazione. Cosa, di per sé, tecnicamente semplice, ma politicamente complicatissima visti gli interessi in questione, i rapporti e le relazioni economiche internazionali che si giocano sulla pelle delle persone, dei migranti e di tutti noi.  

lunedì 5 settembre 2016

SFRUTTATI, ESCLUSI E COMPLETAMENTE ABBANDONATI DALLE ISTITUZIONI: BRACCIANTI ROM A BORGO MEZZANONE

Antonio Ciniero


Ph. Ilaria Papa 




Siamo un territorio di frontiera, non ci manca nulla qui: Cara, “Pista”, ghetti, disagio sociale…siamo la periferia della periferia…

Sono le parole di una volontaria della Caritas di Borgo Mezzanone, frazione di Manfredonia, appena 10 km da Foggia. Oggi è una delle tappe obbligate delle traiettorie del lavoro agricolo in Puglia. 
Sul piccolo territorio di questo borgo rurale è localizzato un CARA[1], con una capienza di oltre 600 posti, punto di arrivo dei bus turistici che portano, scortati dalle auto dei carabinieri, centinaia di giovani migranti che - in moltissimi casi - trovano lavoro nei campi. Alle spalle dal CARA, sulla pista, lunga circa 3 km, di un ex aeroporto militare, una cinquantina di container, più svariate tende e baracche, in cui trovano rifugio, in questo periodo di raccolta, non meno di 800/900 persone provenienti da diverse zone del continente africano: Sudan, Guinea, Mali, Nigeria, Somalia, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Togo e Senegal, le provenienze maggioritarie[2]. Ci sono poi diversi casolari, più o meno diroccati, riparati con materiali di recupero, e altri “micro-ghetti” che offrono precario riparo ad altri lavoratori delle campagne della Capitanata e del Nord barese.

Luoghi che costringono la vita di chi li abita ad una marginalità estrema. Tra questi, c’è una baraccopoli che più di tutti gli altri sembra catapultare chi vi giunge molto lontano, in altre epoche o in altre latitudini. Questo posto invisibile e tuttavia ben evidente dalla strada statale, sorge su un terreno privato con il perimetro delimitato da pali, un traliccio dell’alta tensione e da alcune pale eoliche. Non è contiguo ai vicini luoghi dell’esclusione: tutto intorno, solo distese di terra a perdita d’occhio. A un lato della baraccopoli, un grande fossato - in passato utilizzato come vascone per l’irrigazione - è stato trasformato in una discarica a cielo aperto dove sono conferiti i rifiuti che nessun servizio d’igiene pubblica smaltisce.

lunedì 22 agosto 2016

Migranti economici e migranti politici:
retoriche di una distinzione

Antonio Ciniero



La distinzione tra migrazioni economiche e migrazioni politiche, soprattutto nel discorso pubblico europeo degli ultimi anni, tende ad essere presentata, sempre più spesso, non solo come una definizione giuridica o analitica ma come una distinzione sulla base della quale differenziare i migranti "meritevoli” da quelli “non meritevoli”, quelli da accogliere dai migranti da respingere.[1] Ma siamo sicuri che negli attuali flussi migratori diretti in Europa sia possibile distinguere nettamente le migrazioni politiche da quelle economiche? Siamo sicuri che le vite dei soggetti siano incasellabili rigidamente nei percorsi che le normative nazionali e internazionali (e non solo le normative) pensano come radicalmente alternativi ed esclusivi? E, in seconda battuta, siamo sicuri che anche laddove un soggetto venga riconosciuto come migrante politico, quindi “meritevole” di accoglienza, il sistema pensato dai singoli stati e dall’Unione Europea sia realmente in grado di garantire accoglienza e inclusione?

Migrazioni politiche e migrazioni economiche
Nel concreto articolarsi dei processi migratori non c’è mai un solo fattore che porta ad emigrare. Esiste sempre un complesso insieme di concause difficili da districare, e così un singolo, a prescindere da quello che prevedono le normative, può ritrovarsi contemporaneamente ad essere alla ricerca del lavoro e del riconoscimento dello status di rifugiato. I processi migratori che, almeno dal 2011, stanno interessando l’Europa lo mostrano in maniera esplicita.

lunedì 18 luglio 2016

Quando la povertà diventa strutturale

Antonio Ciniero
pubblicato in sbilinfo

I dati sulla povertà diffusi ieri dall’Istat sono allarmanti:  1 milione e 470 mila famiglie (5,7% di quelle residenti) vivono in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni 102 mila persone (6,8% della popolazione residente) e ben 2 milioni 654 mila famiglie e 7 milioni 815 mila persone vivono in condizione di povertà relativa. 

In Italia ci sono quasi 12 milioni di poveri su 60 milioni di abitanti!

Questi dati sono l’indicatore di una situazione strutturale e non semplicemente congiunturale. La crisi degli ultimi anni ha, al più, aggravato processi di esclusione sociale vecchi almeno di un trentennio. Si tratta di processi che colpiscono in misura sempre più consistente anche chi ha un lavoro: la povertà assoluta interessa il 9,7% delle famiglie in cui il principale percettore di reddito è un operaio.

lunedì 4 luglio 2016

Una domenica d’estate. Appena fuori dall’hotspot di Taranto.

di Antonio Ciniero e Ilaria Papa

(La "passeggiata" giornaliera, dall'hotspot al centro di Taranto - Ph. I.Papa)




Taranto, 3 luglio, 2016


L’auto si muove in direzione Taranto, passando paesi con strade dai nomi di nobili medievali e regine meridionali dimenticate, costeggiando campagne imbevute di sole, in cui anche le stoppie di grano sembrano illuminate. Sul cruscotto, un vecchio romanzo. Scriveva Elio Vittorini, in quel libro uscito per la prima volta a puntate alla fine degli anni Trenta, che la Sicilia di cui andava a raccontare era solo per avventura Sicilia, perché quel nome gli suonava meglio del nome Persia o Venezuela.

Taranto mi ricorda Siracusa, dice ad un certo punto uno di noi.

Taranto come Siracusa, per la sua storia antica e più recente, ma anche come altre città d’Italia, del Mediterraneo, del mondo, oggi. Così come la Sicilia vittoriniana, appartenente al mondo offeso di quegli anni così difficili, era anche storicamente sé stessa e, in quelle sembianze, facilmente riconoscibile, così anche Taranto è sé stessa oggi, come parte di questa terra e di questo tempo, in cui la gente inizia ad affollare le spiagge ed è distratta da mille incombenze quotidiane, quelle che spesso non permettono di vedere al di là dell’immediato.

sabato 18 giugno 2016

Oltre il caporalato, lo sfruttamento


(Giovani lavoratori sulla strada verso il "ghetto" - ph. I. Papa)





pubblicato in sbilinfo

Antonio Ciniero

Dopo lo sciopero del 2011 dei braccianti agricoli alloggiati nel campo di Boncuri (Nardò - Le), in Italia è tornato a riaprirsi un dibattito pubblico sul tema del lavoro in agricoltura, soprattutto di quello stagionale; aspetto sicuramente positivo ma che rischia di avere tra le altre conseguenze quella di ridurre la complessità del tema trattato, selezionando e proponendo alla discussione pubblica solo alcuni aspetti del fenomeno e in questo modo favorendo la diffusione di un’immagine molto parziale della questione: è il caso di quanto sta avvenendo rispetto alla tematizzazione del rapporto intercorrente tra caporalato e sfruttamento lavorativo. Una tematizzazione che rischia di avere ricadute politiche, economiche e sociali non indifferenti.
Dal 2012 ad oggi, molte sono state le inchieste giornalistiche, le analisi socio-economiche, le pubblicazioni che hanno affrontato la questione del lavoro agricolo con un approccio che ha finito per far coincidere, per lo meno nell’immaginario pubblico, il fenomeno del caporalato con quello dello sfruttamento lavorativo in agricoltura. E questo non solo in abito giornalistico, ma anche in parte della pubblicistica specialistica dedicata al tema e, soprattutto, nel dibattito politico ed istituzionale che di fatto negli ultimi anni si è limitato a discutere di interventi - tra l’altro ancora lontani dall’essere approvati - volti al solo contrasto del caporalato.

giovedì 9 giugno 2016

Jerry è morto per colpa di balordi, Mohamed perché faceva caldo e Sekine per legittima difesa…


Antonio Ciniero

Il 25 agosto del 1989, a Villa Literno, in provincia di Caserta, Jerry Masslo, fu colpito a morte con tre colpi di pistola nel capannone dove dormiva perché rifiutò di consegnare ad una banda di balordi il denaro che aveva faticosamente messo da parte raccogliendo pomodori per tre lunghi mesi. Masslo aveva 30 anni quando è morto, era un esule sudafricano, impegnato nella lotta contro il regime di apartheid, scappato in Italia perché nel suo paese rischiava la vita e tuttavia nel nostro paese non fu riconosciuto rifugiato politico per via della riserva geografica, allora in vigore, con la quale l’Italia aveva sottoscritto la Convenzione di Ginevra.  
Il 20 luglio dell’anno scorso, Abdullah Mohamed, cittadino sudanese, riconosciuto rifugiato politico dall’Italia, muore a soli 47 anni mentre raccoglie pomodori in un campo del Salento, non ha un contratto per quel lavoro, è arrivato a Nardò solo un paio di giorni prima della sua morte, dormiva nei campi, all’interno del ghetto di Nardò.  
L’8 giugno 2016, Sekine Triore, 26 anni, proveniente dal Mali, muore nella tendopoli di San Ferdinando, alle porte di Rosarno in Calabria.  
Può sembrare azzardando mettere in relazione queste tre morti? Forse sì, ma non si possono non tenere in considerazione alcuni elementi che le accomunano …  

giovedì 5 maggio 2016

I gruppi rom nel Salento. Alcune note sui processi di interazione ed esclusione sul territorio

Antonio Ciniero



(Archivio "Gitanistan"- Claudio Cavallo Giagnotti)


pubblicato in osservazione
Introduzione
Presenze rom in Puglia e nel Salento nel tempo

La Puglia, e la penisola salentina in particolare, sono da sempre via di transito e punto di approdo tra oriente e occidente. Dai tempi più remoti fino all’oggi, genti molto diverse si sono avvicendate e hanno continuato a intrecciare i propri destini e le proprie storie su questo lembo di terra periferico e allungato nel Mediterraneo. Fra i tanti innumerevoli approdi, perduto dalla memoria popolare, quello, storico, di persone appartenenti alla popolazione romanì, una presenza che nei secoli è entrata a far parte di una storia e di un patrimonio culturale ed economico comune.
Nel Salento, le prime presenze rom si registrano ufficialmente a partire dal XVI secolo, anche se molto probabilmente, come ricorda Piasere (1988), alcuni gruppi vi giunsero già tra il XIV e il XV secolo, durante la prima avanzata dell’esercito ottomano verso l’Europa continentale, quando approdavano sulle coste che le cartine del tempo definivano appartenenti alla provincia di Terra d’Otranto. Tracce di interazioni con il territorio di persone di origini rom in Puglia, giunte con gruppi slavi e greco-albanesi provenienti dai Balcani, sono databili già con sicurezza nella seconda metà del Cinquecento e sono rintracciabili nella numerazione dei fuochi del 1574 dei centri minori del Salento. A Galatone, un feudo distante circa 30 km da Lecce, furono contati in quell’occasione “5 zingari” tra i fuochi straordinari presenti.[1] Anche se sicuramente numerosi furono gli spostamenti e le interazioni con gruppi rom presenti in altri feudi centro-meridionali della penisola (come quelli della Basilicata), è possibile far risalire a questo periodo la presenza di famiglie rom in diverse zone della regione, oltre che nella provincia di Lecce, anche nel tarantino, nel brindisino e nel foggiano, dove ancora vivono molti loro discendenti. 

sabato 23 gennaio 2016

Migranti e lavoro bracciantile tra sfruttamento e disinteresse istituzionale: il caso di Nardò

Antonio Ciniero


Nardò, 2015 (ph. Ilaria Papa)

pubblicato in sbilanciamocinfo

L’agro centro-meridionale della provincia di Lecce, e in particolare la cittadina di Nardò, rappresenta ormai da oltre vent’anni un tassello importante ed emblematico delle dinamiche politiche, sociali ed economiche che attraversano e danno forma al lavoro agricolo stagionale nella gran parte dei paesi dell’aria euro-mediterranea. Le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti in questa zona, sebbene da più parti deprecate, sembrano essere immutabili. Pochi sono gli elementi che si sono modificati nel corso degli anni, tra questi, la composizione sociale dei braccianti avvicendatesi sul territorio e che discende, a sua volta, essenzialmente, da tre fattori: quelli produttivi (il cambio della tipologia dei prodotti agricoli coltivati e la modificazione degli ettari coltura destinati alla coltivazione, che ha richiamato un numero maggiore di manodopera); quelli economici più generali (la crisi degli ultimi anni e i licenziamenti a essa connessi, che hanno spinto verso il settore agricolo soggetti prima impiegati nel settore industriale e in quello dei servizi, di sovente nelle città del centro-nord Italia); e, ancora, quelli legati ai cambiamenti intervenuti sul versante delle dinamiche migratorie, soprattutto dal 2011, quando – a seguito delle cosiddette primavere arabe e dell’intervento armato in Libia – è mutato il panorama degli arrivi e delle presenze dei cittadini stranieri sul territorio dove è aumentato il numero dei cittadini richiedenti asilo e/o protezione umanitaria che, anche in conseguenza delle politiche e delle modalità di accoglienza loro riservate, sono divenuti un importante bacino di reclutamento di manodopera per la raccolta stagionale.

martedì 19 gennaio 2016

La gestione economica delle migrazioni. Politiche migratorie, esclusione e funzionalizzazione delle presenze migranti in Europa

Antonio Ciniero


Premessa: la gestione economica delle migrazioni


L’epoca contemporanea conosce una mobilità umana mai sperimentata prima nella storia, sono più di 200 milioni le persone in transito nel pianeta (232 milioni nel 2013 secondo l’Onu), 34 milioni nella sola Unione Europea (Eurostat). Cifre impressionati che danno l’idea della complessità e della porta di un fenomeno che nessun proibizionismo, barriera o politiche repressive potrà fermare. Chi intraprende l’esperienza migratoria lo fa per ricercare migliori condizioni di vita, per avere un’opportunità che gli pare negata nel suo paese ma anche, e questo avviene sempre più spesso negli ultimi anni, perché è costretto alla fuga da guerre e conflitti. Nel 2014, i migranti forzati hanno raggiunto la cifra record di oltre 60 milioni nel mondo (dati UNHCR) e di 620 mila in Europa[1] (Eurostat) quasi un terzo degli ingressi complessivi. Questi spostamenti contribuiscono a mettere a nudo il re, esplicitano l’insostenibilità dell’attale modello di sviluppo, ne mostrano la forte sperequazione e le abissali diseguaglianze e, al contempo, si configurano come una risposta, individuale e sociale, al processo di impoverimento che interessa aree geografiche sempre più estese del pianeta[2]; ne deriva che prospettare soluzioni è cosa ardua; per risposte realistiche alla complessità del problema si avrebbe bisogno di politiche sopranazionali, oggi difficilmente attivabili, fermo restando gli attuali rapporti di forza che dominano il pianeta. Risposte che superino i modi fallimentari con cui fino ad oggi i paesi occidentali, e quelli europei in particolare, si sono approcciati al fenomeno.