Cerca nel blog

martedì 19 gennaio 2016

La gestione economica delle migrazioni. Politiche migratorie, esclusione e funzionalizzazione delle presenze migranti in Europa

Antonio Ciniero


Premessa: la gestione economica delle migrazioni


L’epoca contemporanea conosce una mobilità umana mai sperimentata prima nella storia, sono più di 200 milioni le persone in transito nel pianeta (232 milioni nel 2013 secondo l’Onu), 34 milioni nella sola Unione Europea (Eurostat). Cifre impressionati che danno l’idea della complessità e della porta di un fenomeno che nessun proibizionismo, barriera o politiche repressive potrà fermare. Chi intraprende l’esperienza migratoria lo fa per ricercare migliori condizioni di vita, per avere un’opportunità che gli pare negata nel suo paese ma anche, e questo avviene sempre più spesso negli ultimi anni, perché è costretto alla fuga da guerre e conflitti. Nel 2014, i migranti forzati hanno raggiunto la cifra record di oltre 60 milioni nel mondo (dati UNHCR) e di 620 mila in Europa[1] (Eurostat) quasi un terzo degli ingressi complessivi. Questi spostamenti contribuiscono a mettere a nudo il re, esplicitano l’insostenibilità dell’attale modello di sviluppo, ne mostrano la forte sperequazione e le abissali diseguaglianze e, al contempo, si configurano come una risposta, individuale e sociale, al processo di impoverimento che interessa aree geografiche sempre più estese del pianeta[2]; ne deriva che prospettare soluzioni è cosa ardua; per risposte realistiche alla complessità del problema si avrebbe bisogno di politiche sopranazionali, oggi difficilmente attivabili, fermo restando gli attuali rapporti di forza che dominano il pianeta. Risposte che superino i modi fallimentari con cui fino ad oggi i paesi occidentali, e quelli europei in particolare, si sono approcciati al fenomeno.
Negli ultimi due secoli, i paesi dell’Unione Europea hanno vissuto tre importanti fasi migratorie: una prima fase, tra la fine dell’Ottocento e i primi trent’anni del Novecento, con le grandi emigrazioni transoceaniche verso il nuovo mondo, movimenti di popolazione che hanno coinvolto la maggioranza dei paesi europei; una seconda fase, che ha inizio con il secondo dopoguerra e dura fino ai primi anni Settanta, in cui si hanno consistenti flussi intraeuropei che si dirigevano dai paesi dell’Europa del sud, meno industrializzati, verso quelli del centro e nord Europa, più industrializzati; una terza fase, infine, che, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, cambia nuovamente lo scenario migratorio europeo, in questo periodo diventano meta dei flussi quei paesi dell’Europa mediterranea che erano stati fino a qualche tempo prima interessati, quasi esclusivamente, dal fenomeno emigratorio. Le due ultime fasi sono diverse sotto molti aspetti.
Fino agli anni Settanta del Novecento, i movimenti migratori avvenivano nel solco di politiche che favorivano l’importazione di forza lavoro aggiuntiva richiesta per sostenere il boom economico innescato dalla ricostruzione postbellica e dall’espansione del processo di industrializzazione. In quel periodo storico, il raccordo tra i paesi di partenza e di destinazione dei migranti era garantito o dagli ex-legami coloniali, come nel caso della Francia e del Regno Unito, o dagli accordi bilaterali siglati dai governi nazionali per garantirsi fornitura di manodopera; questa seconda via è stata seguita principalmente dalla Germania[3], dal Belgio e dalla Svizzera. Protagonisti dei flussi in questi anni sono perlopiù uomini celibi o comunque senza la loro famiglia al seguito, giovani, in buona salute, provenienti dalle aree maggiormente sviluppate dei paesi economicamente depressi, occupati nei settori centrali della produzione, che ricercavano, con il loro spostamento migratorio, la possibilità di un riscatto sociale ed economico per sé e per le loro famiglie rimaste in patria. In questo periodo, il migrante, seppur in maniera contraddittoria, incarnava lo spirito d’intraprendenza richiesto dal sistema capitalistico[4], era un pioniere assoggettato però a diverse forma di controllo; i cittadini stranieri non godevano infatti di un pieno riconoscimento e di parità di diritti con i cittadini autoctoni, erano considerati in primo luogo forza-lavoro, braccia, soggetti la cui presenza doveva essere resa funzionale alle esigenze economiche e produttive degli stati.
Oggi, a questo riconoscimento parziale dei diritti, si aggiunge un processo di criminalizzazione e inferiorizzazione dei cittadini stranieri che non ha pari nella storia recente dei paesi destinatari dei flussi migratori. Le migrazioni sono sempre più connotate negativamente e presentate come antagoniste al nuovo ordine economico, politico e sociale. Di fronte alla presenza di nuovi cittadini le società rispondono – sostanzialmente – in due modi: o con il tentativo di assimilazione di coloro i quali sono ritenuti utili e buoni attraverso un processo che tende a cancellare una diversità che crea ansia e paura; oppure con l’esclusione, allontanando fisicamente e socialmente lo straniero, facendolo sparire dalla stessa percezione e orizzonte sociale attraverso dispositivi e meccanismi legislativi che creano un perenne stato di eccezione[5]. Si pensi alle leggi che mantengono artatamente in condizione d’irregolarità amministrativa una massa consistente di cittadini stranieri e ai luoghi di sospensione dei diritti, come lo sono i Centri di Identificazione ed Espulsione, in cui sono rinchiusi un numero sempre più grande di cittadini per il solo fatto di essere stranieri, colpevoli di andare alla ricerca di pane e libertà. Perché avviene tutto ciò? Come mai nel periodo contemporaneo si assiste a una criminalizzazione senza precedenti della figura del migrante? Per quali motivi nei discorsi pubblici è perennemente presente la necessità di ridurre e controllare le migrazioni? Perché le leggi in materia di migrazione sono sempre più restrittive mentre, contemporaneamente, il numero di lavoratori stranieri impiegati - anche irregolarmente - in molti settori economici non diminuisce per nulla, anzi, in alcuni settori, addirittura aumenta?
L’orientamento dei paesi ricchi, con le politiche di chiusura più o meno rigide, non sono in contraddizione, ma lineari alla funzione che i migranti devono avere su un mercato del lavoro dominato da idee liberiste: manodopera a basso costo, ricattabile, flessibile e facilmente espellibile. Ciò che sembrerebbe una contraddizione - e in netto contrasto con una cultura democratica e solidale - in verità è una risposta, economicamente funzionale, atta a soddisfare la persistenza di una domanda di lavoro inappagata dall’offerta interna. Le politiche di chiusura delle frontiere, la restrizione dei canali di ingresso regolare, la precarizzazione della condizione giuridica degli stranieri e il mancato riconoscimento dei diritti di cittadinanza, fanno sì che si instauri una dialettica tra stato e mercato, in cui i processi di clandestinizzazione ed i fenomeni di razzismo istituzionale, consegnano agli agenti economici un utile strumento di svalorizzazione della forza lavoro, una situazione utilissima a chi domanda lavoro perché mette a loro disposizione una manodopera priva di diritti da sottoremunerare ed utilizzare per incrementare i profitti.
Il legame tra politiche economiche e politiche migratorie è sempre stato molto stretto[6]. Se si guarda al modo in cui gli stati hanno approcciato e continuano ad approcciarsi ai fenomeni migratori, non si fatica a riconoscervi una specifica modalità di gestione della forza lavoro, un tentativo di adattarla alle esigenze economiche e produttive espresse dai diversi sistemi economici. Una modalità che, in ultima analisi, tendeva e tende a riproporre la vecchia logica del divide et impera, condizione essenziale per un sistema economico che si regge sull’esclusione dal godimento dei propri benefici di una massa enorme di soggetti che, con il loro lavoro, permettono però all’attuale sistema economico di continuare a sopravvivere. Le migrazioni, come ha scritto Abdelmalek Sayad[7], hanno una importante funzione paradigmatica - oggi forse anche più di quanto avveniva in passato - sono un’occasione privilegiata per rendere palese ciò che è latente nella costruzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rilevare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di innocenza o ignoranza sociale, per portare alla luce ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato di segreto o di non pensato sociale. I migranti oggi, a causa dello speciale regime giuridico cui sono sottoposti, vivono in maniera più accentuata e drammatica le medesime condizioni di precarietà, esistenziale prima che lavorativa, cui la maggioranza di tutti i cittadini è costretta da un sistema politico ed economico che impedisce a quote sempre più ampie di soggetti l’accesso ai diritti essenziali di ogni essere umano.


Le ricadute sociali ed economiche della normativa europea in materia di migrazioni

Nel corso degli ultimi venticinque anni, l'Unione Europea ha elaborato politiche migratorie sempre più incentrate sugli aspetti repressivi e gli orientamenti securitari. La volontà dichiarata di contrastare l’immigrazione irregolare è divenuta il leitmotiv della maggior parte dei discorsi pubblici (politici e massmediatici) e si è espressa, per lo più, mediante l’elaborazione di strumenti repressivi quali l’irrigidimento e l’esternalizzazione dei controlli alle frontiere o il rafforzamento delle garanzie d’esecutività per le espulsioni, lasciando nel dimenticatoio la promozione dei percorsi di cittadinanza. Finora l’armonizzazione normativa tra gli Stati membri è avvenuta quasi esclusivamente in negativo, con la diffusione di pratiche repressive e di standard di diritti al ribasso. La stragrande maggioranza delle iniziative è andata nella direzione di assicurare la chiusura delle frontiere, nell’infondata illusione di bloccare i flussi migratori, mentre, in concreto, poco è stato fatto per promuovere la libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni stato, così come prevede, tra l’altro, l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
La matrice politica e normativa dell’approccio europeo ai fenomeni migratori, come è noto, è da ricercare negli accordi di Schengen che, nei fatti, hanno creato le precondizioni per un doppio regime di circolazione: da un lato, quello riservato alle merci e ai cittadini europei, dall’altro, quello riservato ai cittadini non europei; uno spazio geografico e politico permeabile per i movimenti delle merci e dei cittadini europei ma sempre meno libero per i movimenti degli esseri umani provenienti dai paesi esterni all’UE. Una situazione questa che, da un punto di vista economico, contribuisce a mantenere alti gli squilibri tra tenori di vita anche all’interno di aree geografiche contigue all’Europa, funzionali all’importazione di manodopera a basso prezzo. È l’Europa-fortezza: sempre più libera al suo interno ma sempre più impenetrabile (per lo meno legalmente) dall’esterno, tanto per i migranti economici quanto per i richiedenti asilo. Anche la legislazione europea riguardante il diritto d’asilo non è infatti scevra da contraddizioni e ricadute sociali negative. A prescindere dai continui dibattiti che periodicamente attraversano l’Europa quando una presunta emergenza è lanciata e dalle conseguenze che questi innescano (la triste cronaca di quest’ultimo periodo e il tentativo di costruzione di anacronistici muri sono alcuni degli esempi), già l’impostazione di fondo dell’intera legislazione in materia di asilo crea enormi disagi e spesso pregiudica pesantemente la riuscita del progetto migratorio dei richiedenti asilo nonostante l’ampia tutela garantita dalle convenzioni internazionali, la Convenzione di Ginevra in primis. Si pensi al cosiddetto principio del primo ingresso sancito della Convenzione di Dublino e ribadito dall’applicazione del regolamento CE 343/03 Dublino II, che, di fatto, negando ai soggetti la libertà di scegliere dove stabilirsi, di raggiungere il posto nel quale potrebbero godere di tutta una serie di supporti, da quelli sociali e parentali fino a quelli economici e politici, invece di tutelarli ne favorisce l’esclusione. Così come gli accordi di Schengen, anche le leggi comunitarie in materia di asilo hanno ricadute sociali ed economiche che condizionano pesantemente la vita delle persone. Un sistema che ignora, o finge di ignorare, le reali dinamiche che favoriscono i processi di inclusione sociale, non può che avere come conseguenza quella di assoggettare un gran numero di soggetti nei paesi di arrivo a posizioni socio-economiche caratterizzate da forte debolezza e ricattabilità. Non è affatto casuale che in Italia (ma la situazione è simile anche in Spagna e in Grecia), siano soprattutto i richiedenti asilo e i rifugiati ad essere impiegati irregolarmente e sottoposti a regimi di sfruttamento lavorativo paraschiavistico in particolare nel settore della raccolta agricola stagionale[8].  
Nella normativa comunitaria sull’immigrazione e sull’asilo sono presenti in modo evidente due anime opposte tra loro: sicurezza contro inclusione. Altrettanto evidenti appaiono le diverse velocità a cui viaggiano i due piani: progressiva e rapida armonizzazione nella repressione delle irregolarità migratorie; lenta e frammentata elaborazione di una base di regole comuni per favorire l’immigrazione regolare. Anche finanziariamente si sostengono più le politiche repressive e di controllo alle frontiere che le politiche sociali volte a garantire l’inclusione dei cittadini migranti e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Nel vuoto della politica istituzionale, il tema delle migrazioni e dei diritti dei cittadini migranti è sparito dalle battaglie dei partiti. È rimasto solo nelle rivendicazioni di qualche leader desideroso di fare scalpore e guadagnarsi voti con la demagogia della crociata contro gli invasori stranieri. Vent’anni di approccio emergenziale e securitario hanno performato il senso comune della gente creando una falsa contrapposizione tra migranti e autoctoni, facendo dei cittadini stranieri un facile capro espiatorio su cui scaricare surrettiziamente le tensioni sociali interne alle società. In questo scenario, la battaglia per i diritti dei cittadini migranti è, in primo luogo, una battaglia per i diritti di tutti, una battaglia intrecciata intrinsecamente con la questione dell’uguaglianza sociale e della libertà che non è più possibile continuare ad ignorare, soprattutto a sinistra.  


Possibili itinerari politici…

Le migrazioni si situano al centro delle molteplici contraddizioni messe in moto dal processo di globalizzazione, pongono importanti sfide alle nostre consolidate visioni del mondo, chiamano in causa la necessità di ridefinire alcuni aspetti dei sistemi sociali ed economici in direzione di un allargamento della fruizione di servizi e diritti da parte di tutti. Dare risposte praticabili e democratiche alle sollecitazioni che le presenze dei nuovi cittadini pongono alle società di destinazione vuol dire, in primo luogo, mettere in discussione le modalità con le quali sino ad oggi si è garantita la redistribuzione delle risorse e l’accesso ai diritti di cittadinanza. Il modo con cui ci si approccia ai fenomeni migratori sono quindi un importante banco di prova su cui poter misurare la democraticità delle istituzioni e delle scelte politiche di un paese.
Per dare risposte democratiche alle questioni politiche, economiche e sociali poste dalla presenza dei cittadini migranti è essenziale superare la logia dell’emergenza ed emanciparsi dalla filosofia dell’ordine pubblico. È necessario partire da un ripensamento radicale delle politiche migratorie, capovolgere la logica securtaria con cui ci si è approcciati alle migrazioni a favore di una logica realmente inclusiva, che muova verso la prospettiva di un riconoscimento di uguaglianza e pari opportunità. È essenziale riformulare le procedure di ingresso sui territori nazionali, rendendole più semplici. È pertanto auspicabile l’apertura di un dibattito concreto sulla possibilità di eliminare, o quantomeno rivedere drasticamente, il concetto di frontiere chiuse e selettive. Concetto che peraltro appare in netta contraddizione con i principi liberali e di razionalità di cui l’Europa storicamente si è fatta portatrice. Diversamente i flussi migratori saranno costretti alle vie illegali, com’è avvenuto in tutti questi anni. Con la normativa vigente i cittadini stranieri, specie nei paesi dell’Europa mediterranea, in Italia in particolare, passano con estrema facilità dalla posizione regolare a quella irregolare, con scarsissime possibilità di un percorso inverso. E’ interesse di tutta la società, in primis dei migranti, la condizione di regolarità sul territorio; perciò, in presenza di determinati requisiti, sono necessarie a regime forme di regolarizzazione permanente. Per quanto concerne la popolazione rifugiata la prima iniziativa deve tendere alla salvaguardia dell’incolumità degli attori. Le proposte in merito sono ben note: corridoi umanitari e permesso (di soggiorno europeo) a risiedere nei paesi scelti dagli interessati.
L’obiettivo prioritario deve essere l’inclusione dei nuovi cittadini, e le garanzie di stabilità sul territorio devono essere viste nella dimensione della reciproca convenienza. Si deve porre fine al percorso ad ostacoli a cui sono sottoposti i cittadini stranieri e si deve iniziare un percorso dei diritti che porti a forme di cittadinanza, che sono anch’esse da ridefinire. Il binomio inscindibile, nazionalità-cittadinanza, alla base dei conflitti tra nativi e immigrati, è una delle forme del razzismo moderno: il razzismo del piccolo uomo bianco, per dirla con Gallissot. Bisognerebbe quindi ripensare il sistema attraverso cui è possibile accedere alla cittadinanza. Nel quadro internazionale che caratterizza l’attuale momento storico, se si vogliono effettivamente rendere praticabili le convenzioni che sanciscono i Diritti dell’uomo non si può più postulare il legame tra nazionalità e cittadinanza come concepito fin ora. La cittadinanza europea ad esempio, così come è definita dal trattato di Maastricht, si presenta come un meccanismo che include solo determinate popolazioni, storicamente presenti nello spazio europeo, escludendone altre che in maggior parte hanno contribuito e contribuiscono ancora allo sviluppo della società civile nel nuovo spazio politico. Gli stranieri, all’interno di questo quadro legislativo, diventano cittadini di seconda classe, stigmatizzati a causa delle loro origini nazionali e delle caratteristiche presupposte delle loro culture e continuamente sottoposti a sorveglianza per la loro entrata o uscita dal territorio nazionale. L’alternativa che si profila a questo sistema di apartheid di fatto è l’istituzione di una cittadinanza fondata sulla residenza, una cittadinanza aperta e tendenzialmente transnazionale, una cittadinanza non più intesa come emanazione di un’istanza superiore (lo stato o la nazione), ma come frutto di una convenzione tra cittadini.
Quest’insieme di scelte, sebbene abbozzate, possono rappresentare un tentativo di rottura culturale con il presente e con il passato, se si intrecciano con una nuova idea critica dello sviluppo e se, mettendo in gioco l’attuale distribuzione e accesso alle risorse disponibili del pianeta, si ipotizza una nuova redistribuzione della ricchezza del mondo. Qualcosa che, con troppa leggerezza, si continua a sottovalutare. Come ricordava Jean-Jacques Rousseau «Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!».









[1] A partire dal 2011, i dati relativi ai flussi migratori diretti verso l’Unione Europea registrano una crescita sistematica del peso del numero dei migranti forzati: sono stati 300 mila nel 2011, 332 mila nel 2012 e 434 mila nel 2013.
[2] Indirettamente i migranti rimediano, almeno in parte, alle disparità economiche tra i diversi paesi con le loro rimesse. Secondo i dati della Banca di Italia e della Banca Mondiale, sono 436 i miliardi di dollari inviati verso i paesi in via di sviluppo nel 2014 a livello mondiale (con un aumento annuale del 4,4%), di cui 5,3 miliardi di euro dall’Italia.
[3] La Germania è tra i pochi paesi europei che ha declinato la sua politica migratoria in chiave esplicitamente economica, nel senso che il cittadino immigrato era riconosciuto (fino al 2001) solo in quanto gastarbeiter, lavoratore temporaneamente presente sul territorio nazionale.
[4] Cfr. Perrone L., 2005 (2008), Da straniero a Clandestino. Lo straniero nell’immaginario sociologico occidentale, Napoli: Liguori Editore.
[5] Agamben G., 2003, Lo Stato di Eccezione, Torino: Bollati Boringhieri.
[6] Cfr., tra gli altri, Basso P., Perocco F., 2003, a cura di, Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte. Franco Angeli, Milano; Ciniero A., 2013, Economia flessibile e vite precarie. Lavoro e migrazioni nel racconto dei cittadini stranieri, Liguori: Napoli.
[7] Sayad A., 2002 La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano: Raffaello Cortina. (ed. or. La double absence, Paris: Èdition du Seuil, 1999).
[8] Cfr., tra gli altri, Medici senza Frontiere, 2005, I frutti dell’ipocrisia. Storie di chi l’agricoltura la fa di nascosto, Milano: Sinnos Editrice; Ciniero A., 2015, "Crisi economica e lotte autorganizzate.  Lavoro, sciopero ed esclusione dei braccianti a Nardò (2011-2015)" in Sociologia del Lavoro 2015 n.4 (140), numero monografico Rappresentare i “perdenti della crisi”. condizioni e strategie di rappresentanza dei lavoratori vulnerabili, Eds. Bianca Beccalli, Enzo Mingione, Enrico Pugliese, Franco Angeli, Milano.

Nessun commento:

Posta un commento