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martedì 1 dicembre 2015

Crisi economica e lotte autorganizzate. Lavoro, sciopero ed esclusione dei braccianti a Nardò (2011-2015)

Antonio Ciniero*


Articolo pubblicato in Sociologia del Lavoro, n.140, 2015


Il lavoro bracciantile in provincia di Lecce tra vuoto istituzionale e caporalato

L’agro centro-meridionale della provincia di Lecce rappresenta ormai da oltre vent’anni un tassello importante ed esemplificativo delle dinamiche politiche, sociali ed economiche che attraversano e danno forma al lavoro agricolo stagionale nella gran parte dei paesi dell’aria euro-mediterranea. Sin dagli inizi degli anni Novanta, a Nardò, nel periodo che va da giugno a settembre, centinaia d’immigrati, provenienti per lo più dal continente africano, prendono parte all’attività di raccolta di prodotti agricoli, principalmente angurie e pomodori, in quella che è divenuta una consuetudine conosciuta, in molti casi deprecata a causa delle condizioni di vita in cui sono costretti i lavoratori, ma, a quel che sembra, immutabile. A mutare, lungo il corso del tempo, è solo la composizione sociale dei braccianti avvicendatisi in conseguenza al modificarsi di diversi fattori: quelli più immediatamente produttivi (il cambio della tipologia dei prodotti agricoli coltivati e la modificazione degli ettari coltura destinati alla coltivazione), quelli economici più generali (la crisi degli ultimi anni, i licenziamenti ad essa connessi, le politiche pubbliche ispirate ai dettami dell’austerity e la stagnazione economica) e, ancora, quelli legati ai cambiamenti intervenuti sul versante delle dinamiche migratorie, soprattutto dal 2011, quando – a seguito delle cosiddette primavere arabe e dell’intervento armato in Libia – è mutato il panorama degli arrivi e delle presenze di cittadini stranieri sul territorio. Da quell’anno, infatti, si è registrato un aumento costante di cittadini richiedenti asilo e/o protezione umanitaria che, anche in conseguenza delle politiche e delle modalità di accoglienza loro riservate (Cfr. Ciniero 2014), sono divenuti un bacino di reclutamento di manodopera.

A rimanere quasi del tutto invariati sono anche altri due elementi fondamentali alla strutturazione del contesto socio-economico e socio-politico nel quale il lavoro bracciantile prende forma: il ruolo e le modalità di intervento delle istituzioni politiche (locali e non) rispetto al fenomeno e le modalità di intermediazione lavorativa tra domanda e offerta di lavoro garantita dal meccanismo del caporalato.
In riferimento al ruolo delle istituzioni, va evidenziato che fino al 2009 non hanno predisposto nemmeno misure relative alla sistemazione alloggiativa dei braccianti, né tali misure sono state poste in essere dai datori di lavoro. Nel vuoto di interventi istituzionali, i braccianti erano di fatto (come, in parte, continuano ad essere) delle presenze sconosciute, dimenticate e quasi invisibili sul territorio[1], costretti a vivere e ad arrangiarsi autonomamente in stabili lasciati all’abbandono o accampati direttamente sui terreni agricoli. È solo nel 2010 che la Provincia di Lecce e il Comune di Nardò, in collaborazione con alcune realtà associative, hanno approntato un sistema di prima accoglienza e alloggio per i lavoratori impiegati nella raccolta stagionale. Era un campo, sorto in una vecchia masseria (denominata Boncuri) ristrutturata con fondi comunitari proprio per accogliere i lavoratori stagionali, formato da 28 tende in grado di ospitare fino a 400 persone. In realtà, questo campo sarà funzionante solo per due anni e, già dal 2012, la masseria non verrà più utilizzata per l’accoglienza dei braccianti. Tale chiusura viene giustificata adducendo, tra gli altri motivi, che la crisi economica in agricoltura nel 2012 avrebbe contratto la richiesta di manodopera.[2] Vengono quindi individuate soluzioni alloggiative alternative per i migranti. Soluzioni che comunque non mettono in discussione la forma del campo. Nel 2012 le tende sono trasferite su un terreno privato, affittato dalle istituzioni, ubicato nell’agro di Nardò. La maggioranza dei lavoratori però continua comunque a vivere accampandosi direttamente su terreni agricoli nelle immediate vicinanze del campo attrezzato o in ruderi abbandonati nelle campagne: vecchi casolari o capanni per gli attrezzi. Il tutto, in assenza di ogni più elementare servizio: da quelli igienici e sanitari ai trasporti. Insomma, un vero e proprio ghetto, che costringe i suoi abitanti in una dimensione sospesa e chiusa dentro le dinamiche tipiche di questi luoghi[3].
Questa assenza di servizi, che dovrebbero per legge essere garantiti dalle aziende agricole e dal sistema istituzionale, ha creato le condizioni principali nelle quali si è consolidato il sistema di intermediazione informale tra domanda e offerta di lavoro garantita dal meccanismo del caporalato, tanto da renderlo, ancor oggi, la modalità principalmente, se non esclusivamente, utilizzata dalle aziende per il reclutamento di manodopera stagionale. Il caporalato, proprio come nel passato (Mottura, Pugliese, 1975) continua a essere, sotto diverse forme, un elemento strutturale all’organizzazione del lavoro agricolo, un servizio che l’economia informale fornisce alle imprese per mantenere basso il costo del lavoro e al contempo controllare e disciplinare la forza lavoro, in particolare i segmenti di forza lavoro dotati di minore capacità e forza contrattuale: oltre ai migranti, non casualmente, sempre nel territorio salentino (per lo più nella provincia brindisina), sono state e continuano ad essere le donne (italiane) prevalentemente oggetto della pratica di intermediazione lavorativa garantita dal caporalato[4].

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[1] Tra i pochi a interfacciarsi con i braccianti alcune realtà associative e di volontariato.
[2] È quanto dichiara il Prefetto di Lecce, sulla base di indicazioni ricevute delle associazioni datoriali, in una missiva inviata il 31 maggio 2012 alle organizzazioni sindacali, al Comune di Nardò, alla Provincia di Lecce e alla Regione Puglia. Contrariamente a queste previsioni, come era facile aspettarsi, gli arrivi in quell’anno non diminuirono.
[3] Per una ricostruzione di queste dinamiche si veda, tra gli altri, Fanizza (2013). Rispetto allo specifico caso di Nardò si veda il lavoro di Perrotta e Sacchetto (2012a).
[4] A tal proposito si veda: Limoccia, Leo, Piacente (1997); Alò (2010), Leogrande (2008) e la recente inchiesta di Cosentino (2015).








* Università del Salento, antonio.ciniero@unisalento.it.

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