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martedì 7 aprile 2015

Il lavoro negato. Il caso dei rom Xoraxanè di Lecce

Antonio Ciniero





Nella periferia della città di Lecce sorge un campo sosta denominato Masseria Panareo. Vi vivono, oggi, circa cinquanta famiglie rom. Tra le baracche e i prefabbricati di più recente costruzione si possono vedere ancora i mattoni di tufo della costruzione diroccata da cui il luogo ha preso il nome, una masseria abbandonata parecchi decenni fa all’incuria e al passare del tempo, isolata, circondata soltanto da distese di ulivi e separata dai comuni del circondario. Per raggiungere il campo bisogna percorrere per circa sette chilometri la strada che da Lecce conduce al comune di Campi Salentina: è lì che, dal 1998, dopo diverse vicissitudini e una serie di interventi politici ed istituzionali, sono state trasferite le famiglie di questo gruppo rom, alcune delle quali giunte nel Salento a partire dagli anni ’80. Una decisione che ha progressivamente condizionato e aggravato la situazione di esclusione e marginalità sociale di questi cittadini, rendendo evidente come l’istituzione dei campi sosta rappresenti una delle materializzazioni più brutali degli asimmetrici rapporti di potere che storicamente si sono instaurati tra rom e gagè. Un’asimmetria che in Italia, ma non solo, continua ad essere mantenuta anche attraverso l’emanazione di politiche pubbliche.
Per i rom del campo Panareo, in particolare per le nuove generazioni, vivere nel campo è divenuta una scelta obbligata, mal sopportata, ma di difficile messa in discussione, non ultimo, per le difficoltà di avere accesso a forme di reddito che permettano la possibilità di sostenersi al di fuori del campo. Chi ha avuto modo di percepire reddito sufficiente per inserirsi nel tessuto urbano e sociale della città lo ha fatto, chi non ha le condizioni materiali per farlo conserva comunque questa aspirazione. Per la maggior parte dei rom del Panareo, uscire dal campo è una priorità ed è conseguibile solo attraverso forme di lavoro regolari che, a oggi, anche per i diffusi pregiudizi, sono di difficile conseguimento. Vita nel campo e lavoro si intrecciano dunque in un trama perversa.  Affrontare il tema dell’accesso al lavoro è uno dei modi possibili attraverso cui interrogarsi sulle asimmetrie di potere che condizionano i rapporti tra rom e società maggioritarie. Il modo in cui è influenzata la vita dei singoli rom e i tentativi messi in atto per affrontare e superare le quotidiane contingenze determinate dal vivere nei campi.
Rispetto alla generale condizione lavorativa dei rom leccesi in questione, un dato meramente quantitativo da prendere in considerazione è che ben il 62% dei residenti in età attiva ha un’occupazione (il 52% è rappresentato da donne). Attualmente la maggior parte degli abitanti del campo è impegnata in un lavoro autonomo (72%), più della metà (57%) nell’attività di vendita ambulante (porta a porta) di piante e fiori. Un altro gruppo significativo è impegnato, sempre autonomamente, nella compravendita di auto usate. Per quanto riguarda il lavoro dipendente si registrano solo assunzioni saltuarie e spesso non regolarizzate. Nonostante ciò, l’aspirazione a svolgere una qualsiasi attività, purché dipendente, riguarda un considerevole 18% di intervistati che si concentrano nelle fasce di età più giovani. La scelta di svolgere un lavoro autonomo è però, in molti casi, una scelta di ripiego derivante dal fatto che la possibilità di trovare un impiego lavorativo spesso è minata proprio dalla situazione abitativa, dal campo e dallo stigma che esso crea sui soggetti che ci vivono dentro. Più di un abitante del campo ha dichiarato che la principale difficoltà incontrata nella ricerca del lavoro è proprio la diffidenza dimostrata dai potenziali datori una volta emersa la loro origine rom. Una caratteristica, tra l’altro, difficile da nascondere, soprattutto per chi debba sottoscrivere un contratto lavorativo. Sui documenti personali alla voce residenza compare “Campo sosta Panareo”.
Le difficoltà che la dimensione del campo crea nella ricerca e nel mantenimento di un posto di lavoro non sono solo di natura culturale, legate ai diffusi pregiudizi, ma anche di tipo logistico-organizzativo. Il campo è sprovvisto di qualsiasi forma di collegamento con le città limitrofe. Questa situazione di sostanziale isolamento rende particolarmente difficile, specie per chi è sprovvisto di auto o patente, raggiungere i luoghi di lavoro.
Se è vero inoltre che la maggioranza dei rom residenti nel campo di Lecce lavora, è vero anche che la gran parte dei lavori svolti non richiedono specifiche competenze, sono ripetitivi e, di fatto, uguali per tutti. La marginalità sembra essere il comune denominatore delle diverse attività economiche praticate per avere accesso a forme di reddito. Si tratta di lavori perennemente proiettati nell’oggi, senza alcuna realistica possibilità di sviluppo futuro. L’immediatezza è la dimensione caratterizzante la dinamica del lavoro dei rom. La vendita delle piante, o le altre attività, sono fatte per “guadagnarsi la giornata”, “giusto per comprare un po’ di pane”, “per tirare avanti”, come più volte mi è stato ripetuto. Il ricavo economico di una giornata di lavoro o una parte di esso, e non solo per via dell’esiguità, difficilmente è destinato al risparmio. Nulla è accantonato, tutto è consumato nell’immediato. Si sbaglierebbe a pensare che questo tipo di comportamento sia una caratteristica peculiare ed esclusiva dei gruppi rom; anche tra i membri di altri gruppi marginali si riscontrano comportamenti simili. La condizione di marginalità, imposta o ricercata che sia, favorisce l’emergere di un modo di vita legato alla contingenza, è come se l’esistenza individuale fosse fermata perennemente nel presente. Una situazione che continua a condizionare la vita e le prospettive di vita, soprattutto delle nuove generazioni che sono nate e cresciute all’interno del campo sosta (quasi la metà degli attuali residenti nel campo è nato e cresciuto a Lecce).
Il campo delimita spazialmente e socialmente la vita di chi ci abita. La cesura tra dentro e fuori è netta. Crea una sorta di limbo nel quale le nuove generazioni vivono, più dei loro genitori e nonni, le contraddizioni della marginalità e dell’esclusione. I più giovani, attraverso i messaggi massmediatici, ma anche con il processo di scolarizzazione, lo scambio con il gruppo dei pari, conoscono un mondo e abitudini comportamentali profondamente diversi da quelli che esperiscono all’interno del campo sosta che si configura sempre più come un vero e proprio ghetto che ingabbia le loro vite. Un luogo dal quale, come non è difficile capire, la gente vuole andare via. Un desiderio particolarmente presente nelle aspettative dei più giovani. Avere la possibilità di studiare, trovare un lavoro, una casa, degli amici, e, in molti casi, anche un compagno o una compagna di vita, rigorosamente fuori dal campo, sono aspirazioni che compaiono nella maggioranza dei racconti che fanno del loro futuro gli under venti.
Come i rom xoraxanè di Lecce, la maggioranza dei membri delle popolazioni romanì in emergenza abitativa presenti in Italia è in gran parte fuori dal mercato del lavoro e si trova in condizione di sostanziale marginalizzazione e impoverimento. Un ulteriore aspetto, se possibile, più preoccupante sono le scarse prospettive di cambiamento di questa condizione di esclusione. Ricercare soluzioni in assoluto efficaci a questi problemi, se, da un lato, è cosa ardua e forse pretenziosa, dall’altro, potrebbe rivelarsi inutile. Le situazioni sono molto eterogenee e complesse, condizionate da un molteplicità di fattori (politici, sociali, culturali economici) che interagiscono tra loro di volta in volta in modo diverso. Pianificare percorsi formativi che valorizzino le competenze che spesso i soggetti già possiedono o che tengano conto contemporaneamente delle aspirazioni dei singoli e delle richieste espresse dai diversi mercati locali, così come in diverse realtà locali si inizia a fare, può essere un primo passo per favorire processi di inclusione sociale dei rom, ma è sulla pianificazione di medio e lungo periodo che ci si dovrebbe concentrare per perseguire risultati che siano, anche in termini quantitativi, sodisfacenti. Rispetto a ciò l’assunzione di una logica di progettazione degli interventi che sia il più possibile partecipata e condivisa tra attori pubblici, rappresentanze dei gruppi rom, privato e terzo settore, costituisce, come testimoniato da alcune esperienze realizzate, un indiscutibile elemento di valore aggiunto e, ancor prima, un fattore di successo delle misure di inclusione sociale centrate sui processi di inserimento lavorativo. Sempre nella prospettiva di un ampliamento dei processi di inclusione sociale e garanzia dei diritti, è necessario incentivare e sostenere i processi di scolarizzazione, che, in prospettiva, non precludano ai giovani rom la formazione universitaria.

Quanto qui affermato però rischia di rientrare, nella più ottimistica delle ipotesi, solo nel novero delle “buone intenzioni”, se non si capovolge la logica politica dominante con la quale, in Italia, fino ad oggi, ci si è approcciati alle questioni poste dalle presenze rom. Come oramai condiviso dalla letteratura in materia, sono le scelte politiche ad esercitare la maggiore influenza sulle condizioni di vita delle popolazioni romanì. È dunque dalla radicale messa in discussione del modello di gestione politica delle presenze rom, che ha fatto della logica dei campi sosta la sua essenza, che bisognerebbe partire per tentare di invertire le tendenze fin oggi registrate.

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