Antonio Ciniero
Nella periferia della città di Lecce sorge un campo sosta denominato Masseria Panareo. Vi vivono, oggi, circa cinquanta famiglie rom. Tra le baracche e i prefabbricati di più recente costruzione si possono vedere ancora i mattoni di tufo della costruzione diroccata da cui il luogo ha preso il nome, una masseria abbandonata parecchi decenni fa all’incuria e al passare del tempo, isolata, circondata soltanto da distese di ulivi e separata dai comuni del circondario. Per raggiungere il campo bisogna percorrere per circa sette chilometri la strada che da Lecce conduce al comune di Campi Salentina: è lì che, dal 1998, dopo diverse vicissitudini e una serie di interventi politici ed istituzionali, sono state trasferite le famiglie di questo gruppo rom, alcune delle quali giunte nel Salento a partire dagli anni ’80. Una decisione che ha progressivamente condizionato e aggravato la situazione di esclusione e marginalità sociale di questi cittadini, rendendo evidente come l’istituzione dei campi sosta rappresenti una delle materializzazioni più brutali degli asimmetrici rapporti di potere che storicamente si sono instaurati tra rom e gagè. Un’asimmetria che in Italia, ma non solo, continua ad essere mantenuta anche attraverso l’emanazione di politiche pubbliche.
Nella periferia della città di Lecce sorge un campo sosta denominato Masseria Panareo. Vi vivono, oggi, circa cinquanta famiglie rom. Tra le baracche e i prefabbricati di più recente costruzione si possono vedere ancora i mattoni di tufo della costruzione diroccata da cui il luogo ha preso il nome, una masseria abbandonata parecchi decenni fa all’incuria e al passare del tempo, isolata, circondata soltanto da distese di ulivi e separata dai comuni del circondario. Per raggiungere il campo bisogna percorrere per circa sette chilometri la strada che da Lecce conduce al comune di Campi Salentina: è lì che, dal 1998, dopo diverse vicissitudini e una serie di interventi politici ed istituzionali, sono state trasferite le famiglie di questo gruppo rom, alcune delle quali giunte nel Salento a partire dagli anni ’80. Una decisione che ha progressivamente condizionato e aggravato la situazione di esclusione e marginalità sociale di questi cittadini, rendendo evidente come l’istituzione dei campi sosta rappresenti una delle materializzazioni più brutali degli asimmetrici rapporti di potere che storicamente si sono instaurati tra rom e gagè. Un’asimmetria che in Italia, ma non solo, continua ad essere mantenuta anche attraverso l’emanazione di politiche pubbliche.
Per i rom del campo Panareo, in particolare per le nuove generazioni,
vivere nel campo è divenuta una scelta obbligata, mal sopportata, ma di
difficile messa in discussione, non ultimo, per le difficoltà di avere accesso
a forme di reddito che permettano la possibilità di sostenersi al di fuori del
campo. Chi ha avuto modo di percepire reddito
sufficiente per inserirsi nel tessuto urbano e sociale della città lo ha fatto,
chi non ha le condizioni materiali per farlo conserva comunque questa
aspirazione. Per la maggior parte dei rom del Panareo, uscire dal campo è una
priorità ed è conseguibile solo attraverso forme di lavoro regolari che, a
oggi, anche per i diffusi pregiudizi, sono di difficile conseguimento. Vita nel
campo e lavoro si intrecciano dunque in un trama perversa. Affrontare il tema dell’accesso al lavoro è
uno dei modi possibili attraverso cui interrogarsi sulle asimmetrie di potere
che condizionano i rapporti tra rom e società maggioritarie. Il modo in cui è
influenzata la vita dei singoli rom e i tentativi messi in atto per affrontare
e superare le quotidiane contingenze determinate dal vivere nei campi.
Rispetto
alla generale condizione lavorativa dei rom leccesi in questione, un dato
meramente quantitativo da prendere in considerazione è che ben il 62% dei
residenti in età attiva ha un’occupazione (il 52% è rappresentato da donne).
Attualmente la maggior parte degli abitanti del campo è impegnata in un lavoro
autonomo (72%), più della metà (57%) nell’attività di vendita ambulante (porta
a porta) di piante e fiori. Un altro gruppo significativo è impegnato, sempre
autonomamente, nella compravendita di auto usate. Per quanto riguarda il lavoro
dipendente si registrano solo assunzioni saltuarie e spesso non regolarizzate.
Nonostante ciò, l’aspirazione a svolgere una qualsiasi attività, purché
dipendente, riguarda un considerevole 18% di intervistati che si concentrano
nelle fasce di età più giovani. La scelta di svolgere un lavoro autonomo è però,
in molti casi, una scelta di ripiego derivante dal fatto che la possibilità di
trovare un impiego lavorativo spesso è minata proprio dalla situazione
abitativa, dal campo e dallo stigma che esso crea sui soggetti che ci vivono
dentro. Più di un abitante del campo ha dichiarato che la principale difficoltà
incontrata nella ricerca del lavoro è proprio la diffidenza dimostrata dai
potenziali datori una volta emersa la loro origine rom. Una caratteristica, tra
l’altro, difficile da nascondere, soprattutto per chi debba sottoscrivere un
contratto lavorativo. Sui documenti personali alla voce residenza compare
“Campo sosta Panareo”.
Le
difficoltà che la dimensione del campo crea nella ricerca e nel mantenimento di
un posto di lavoro non sono solo di natura culturale, legate ai diffusi
pregiudizi, ma anche di tipo logistico-organizzativo. Il campo è sprovvisto di
qualsiasi forma di collegamento con le città limitrofe. Questa situazione di
sostanziale isolamento rende particolarmente difficile, specie per chi è
sprovvisto di auto o patente, raggiungere i luoghi di lavoro.
Se
è vero inoltre che la maggioranza dei rom residenti nel campo di Lecce lavora,
è vero anche che la gran parte dei lavori svolti non richiedono specifiche
competenze, sono ripetitivi e, di fatto, uguali per tutti. La marginalità
sembra essere il comune denominatore delle diverse attività economiche
praticate per avere accesso a forme di reddito. Si tratta di lavori
perennemente proiettati nell’oggi, senza alcuna realistica possibilità di
sviluppo futuro. L’immediatezza è la dimensione caratterizzante la dinamica del
lavoro dei rom. La vendita delle piante, o le altre attività, sono fatte per
“guadagnarsi la giornata”, “giusto per comprare un po’ di pane”, “per tirare
avanti”, come più volte mi è stato ripetuto. Il ricavo economico di una
giornata di lavoro o una parte di esso, e non solo per via dell’esiguità,
difficilmente è destinato al risparmio. Nulla è accantonato, tutto è consumato
nell’immediato. Si sbaglierebbe a pensare che questo tipo di comportamento sia
una caratteristica peculiare ed esclusiva dei gruppi rom; anche tra i membri di
altri gruppi marginali si riscontrano comportamenti simili. La condizione di
marginalità, imposta o ricercata che sia, favorisce l’emergere di un modo di
vita legato alla contingenza, è come se l’esistenza individuale fosse fermata
perennemente nel presente. Una situazione che continua a condizionare la vita e
le prospettive di vita, soprattutto delle nuove generazioni che sono nate e
cresciute all’interno del campo sosta (quasi la metà degli attuali residenti
nel campo è nato e cresciuto a Lecce).
Il
campo delimita spazialmente e socialmente la vita di chi ci abita. La cesura
tra dentro e fuori è netta. Crea una sorta di limbo nel quale le nuove
generazioni vivono, più dei loro genitori e nonni, le contraddizioni della
marginalità e dell’esclusione. I più giovani, attraverso i messaggi
massmediatici, ma anche con il processo di scolarizzazione, lo scambio con il
gruppo dei pari, conoscono un mondo e abitudini comportamentali profondamente
diversi da quelli che esperiscono all’interno del campo sosta che si configura
sempre più come un vero e proprio ghetto che ingabbia le loro vite. Un luogo
dal quale, come non è difficile capire, la gente vuole andare via. Un desiderio
particolarmente presente nelle aspettative dei più giovani. Avere la
possibilità di studiare, trovare un lavoro, una casa, degli amici, e, in molti
casi, anche un compagno o una compagna di vita, rigorosamente fuori dal campo,
sono aspirazioni che compaiono nella maggioranza dei racconti che fanno del
loro futuro gli under venti.
Come i rom xoraxanè di Lecce, la maggioranza dei membri delle
popolazioni romanì in emergenza abitativa presenti in Italia è in gran parte fuori dal mercato del
lavoro e si trova in condizione di sostanziale marginalizzazione e
impoverimento. Un ulteriore aspetto, se possibile, più preoccupante sono le
scarse prospettive di cambiamento di questa condizione di esclusione. Ricercare
soluzioni in assoluto efficaci a questi problemi, se, da un lato, è cosa ardua
e forse pretenziosa, dall’altro, potrebbe rivelarsi inutile. Le situazioni sono
molto eterogenee e complesse, condizionate da un molteplicità di fattori
(politici, sociali, culturali economici) che interagiscono tra loro di volta in
volta in modo diverso. Pianificare percorsi formativi che valorizzino le
competenze che spesso i soggetti già possiedono o che tengano conto
contemporaneamente delle aspirazioni dei singoli e delle richieste espresse dai
diversi mercati locali, così come in diverse realtà locali si inizia a fare,
può essere un primo passo per favorire processi di inclusione sociale dei rom,
ma è sulla pianificazione di medio e lungo periodo che ci si dovrebbe
concentrare per perseguire risultati che siano, anche in termini quantitativi,
sodisfacenti. Rispetto a ciò l’assunzione di una logica di progettazione degli
interventi che sia il più possibile partecipata e condivisa tra attori
pubblici, rappresentanze dei gruppi rom, privato e terzo settore, costituisce,
come testimoniato da alcune esperienze realizzate, un indiscutibile elemento di
valore aggiunto e, ancor prima, un fattore di successo delle misure di
inclusione sociale centrate sui processi di inserimento lavorativo. Sempre
nella prospettiva di un ampliamento dei processi di inclusione sociale e
garanzia dei diritti, è necessario incentivare e sostenere i processi di
scolarizzazione, che, in prospettiva, non precludano ai giovani rom la
formazione universitaria.
Quanto qui affermato però rischia di rientrare, nella più ottimistica
delle ipotesi, solo nel novero delle “buone intenzioni”, se non si capovolge la
logica politica dominante con la quale, in Italia, fino ad oggi, ci si è
approcciati alle questioni poste dalle presenze rom. Come oramai condiviso
dalla letteratura in materia, sono le scelte politiche ad esercitare la
maggiore influenza sulle condizioni di vita delle popolazioni romanì. È dunque
dalla radicale messa in discussione del modello di gestione politica delle
presenze rom, che ha fatto della logica dei campi sosta la sua essenza, che
bisognerebbe partire per tentare di invertire le tendenze fin oggi registrate.
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