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lunedì 4 luglio 2016

Una domenica d’estate. Appena fuori dall’hotspot di Taranto.

di Antonio Ciniero e Ilaria Papa

(La "passeggiata" giornaliera, dall'hotspot al centro di Taranto - Ph. I.Papa)




Taranto, 3 luglio, 2016


L’auto si muove in direzione Taranto, passando paesi con strade dai nomi di nobili medievali e regine meridionali dimenticate, costeggiando campagne imbevute di sole, in cui anche le stoppie di grano sembrano illuminate. Sul cruscotto, un vecchio romanzo. Scriveva Elio Vittorini, in quel libro uscito per la prima volta a puntate alla fine degli anni Trenta, che la Sicilia di cui andava a raccontare era solo per avventura Sicilia, perché quel nome gli suonava meglio del nome Persia o Venezuela.

Taranto mi ricorda Siracusa, dice ad un certo punto uno di noi.

Taranto come Siracusa, per la sua storia antica e più recente, ma anche come altre città d’Italia, del Mediterraneo, del mondo, oggi. Così come la Sicilia vittoriniana, appartenente al mondo offeso di quegli anni così difficili, era anche storicamente sé stessa e, in quelle sembianze, facilmente riconoscibile, così anche Taranto è sé stessa oggi, come parte di questa terra e di questo tempo, in cui la gente inizia ad affollare le spiagge ed è distratta da mille incombenze quotidiane, quelle che spesso non permettono di vedere al di là dell’immediato.


Arriviamo a Taranto alle dieci, accolti da una nube bianca, che continua a gonfiarsi e a ribollire da una ciminiera, eredità dello sviluppo mancato per il Meridione arretrato, così si è detto per tanto tempo. Ci dirigiamo verso il mare, che compare calmo e colorato di barche, verso il varco nord del porto, dove sorge il luogo che vorremmo avvistare. Il luogo in questione è l’hotspot, uno dei centri allestiti in Grecia e in Italia, paesi esposti agli arrivi di migranti, per identificarli, registrarli, foto-segnalarli e raccogliere le loro impronte digitali il più rapidamente possibile. Appartengono alla categoria dei luoghi tristemente noti nei quali stipare l’umanità eccedente, la nuda vita, la pura zoé.

L’hotspot è lontano dallo sguardo e invisibile: gli occhi non possono, non devono vederlo. Eppure sorge su una superfice di circa diecimila metri quadrati, sulla quale trovano spazio una decina di container. Lì si decide del futuro di migliaia di persone, della loro vita e di quella dei loro famigliari che non sono ancora riusciti a partire.
Nella normale, apparentemente uguale, laboriosità del porto, tutto appare consueto, se non fosse per la presenza di diversi uomini giovanissimi che compaiono all’improvviso. A piccoli gruppi, con asciugamani in testa per proteggersi dal forte calore, questi giovani uomini camminano sui viali asfaltati di raccordo che vanno dal porto in direzione della città. Alcuni si fermano con curiosità a spiare il mare di sotto attraverso le inferriate che costeggiano quel percorso stradale, fatto per le auto, non per i pedoni. Altri ne incontriamo più avanti: si guardano intorno o sostano su un marciapiede. Un gruppo racconta di venire dal Bangladesh.

D., A. e T. invece sono seduti su una panchina nel piazzale antistante la stazione, sotto la pensilina della fermata dell’autobus. Sono fermi, in silenzio, con lo sguardo proteso come se cercassero qualcosa.

Je parle français, je viens du Mali, ci dice D., come A.
T. invece arriva dalla Costa d’Avorio. 

Raccontano che dormono nell’hotspot e che passano le loro giornate in stazione o in giro per il centro di Taranto. Ci dicono che non sanno cosa fare, che non sanno perché sono lì dentro, che non sanno perché non possono andare via. Nessuno ha dato loro informazioni. Ci fanno mangiare, dormire e lavare, continuano. Con loro, ci sono centinaia di persone, anche moltissime donne e bambini. Vengono soprattutto dalla Nigeria, dal Gambia, dalla Costa d’Avorio, dalla Sierra Leone.
D. A. e T. sono a Taranto da una settimana. Raccontano di essere sbarcati insieme in Sicilia e da lì, dopo una veloce visita medica, sono stati spediti qui a Taranto. In Sicilia, nessuno ha detto loro dove fossero diretti, e a Taranto è successo lo stesso: nessuno ha detto loro né dove si trovano né cosa ne sarà di loro. Dopo una settimana non hanno potuto parlare con alcun avvocato, nessuno ha fornito loro informazioni su che procedure seguire per regolarizzare la loro posizione. Non hanno alcun documento, solo un badge che reggono al collo con un nastro giallo che riporta scarni dati anagrafici e numeri di matricola. Giunti in Italia, non hanno potuto nemmeno comunicare con le proprie famiglie, e lo fanno solo oggi con il nostro cellulare, dopo sette lunghissimi giorni.

Sono io, sono io, grazie a Dio sono in Italia e sto bene. Avvisa tutti, grazie, dice pacatamente D. I suoi occhi sono affollati di domande, perché non sa cosa sarà di lui. Vorrebbe andare fuori dall’Italia, continua, vorrebbe lavorare.

Oggi non sappiamo ancora con chiarezza cosa sia giuridicamente un hotspot. Sappiamo però benissimo quali dinamiche innesca e innescherà questo luogo, come altri luoghi del genere, sulla vita di chi è costretto a entrarci, e anche rispetto alle più generali dinamiche sociali e migratorie. E lo sappiamo non perché abbiamo una qualche miracolosa sfera di cristallo, ma perché su questi luoghi, che ciclicamente cambiano nome, esiste oramai una letteratura scientifica sterminata. Sappiamo perfettamente tutto quello che avviene dentro, quali dinamiche relazionali si inneschino tra operatori e “ospiti”. Conosciamo le contraddizioni giuridiche a cui danno vita, la funzionalità produttrice di irregolarità amministrativa e la correlazione che questa irregolarità prodotta per legge ha tanto con le modalità di costruzione del consenso, quanto con le modalità di inserimento lavorativo e relativo sfruttamento in contesti economici depressi come il nostro.

Anche per questo le parole di D. e dei suoi compagni non ci giungono nuove. Sono simili a tante altre che abbiamo udito in situazioni simili. Eppure D., A. e T. non sono numeri. Come non sono semplicemente tre storie tra tante da raccogliere. Sono tre giovani uomini che hanno diritto a una vita degna di essere vissuta, come tutti.

Lo sappiamo, si sa, ed è proprio per questo che bisogna ribadirlo con forza. Luoghi del genere e campi non accolgono, non aiutano queste persone, né la società. Escludono e mortificano la vita e vanno smantellati. È la nostra Costituzione che ce lo chiede, ed è la nostra umanità che ce lo dovrebbe imporre. 

L’hotspot di Taranto è solo uno dei tanti spazi d’eccezione, messi su per gestire, per contenere vite indesiderate. Questa pratica, sul territorio, è stata inaugurata venticinque anni fa, nell’agosto del 1991, quando migliaia di cittadini albanesi, giunti nel porto di Bari a bordo della nave Vlora, furono trasferiti e trattenuti per giorni nello stadio delle Vittorie prima di essere rimpatriati con l’inganno. Una delle pagine più buie e delle ferite più profonde della storia recente del nostro paese. 




Da allora fino a oggi, la concentrazione spaziale di uomini e donne in luoghi del genere con caratteristiche ricorrenti, rispondenti ai canoni dell’urbanistica del disprezzo, sono sistematicamente aumentati. La Puglia, e purtroppo non solo la Puglia, ne è piena. Tanti, troppi sono i Cara, i CIE, i campi rom e i ghetti che puntellano il territorio regionale, dal Salento alla Capitanata. Luoghi, creati o tollerati dalle istituzioni, in cui la violazione o la sospensione dei diritti è la norma. 









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