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mercoledì 2 novembre 2016

Quando il razzismo è esibito. Il caso di Gorino e le contraddizioni italiane





Antonio Ciniero

articolo pubblicato in R-Project


Diceva Malcom X che se non fossimo stati attenti, i media ci avrebbero fatto odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono.
Eppure quello che è accaduto a Gorino il 24 ottobre va molto al di là di quella che può essere solo una responsabilità dei media, del clima di intolleranza costruito in Italia. Chiama in causa responsabilità di tutti, ad iniziare da chi ha permesso che tutto ciò potesse accadere.

Probabilmente anche quella che descrive Gorino come una comunità compatta e unita nel razzismo è un’immagine, in parte, costruita e semplificata dal racconto mediatico (sia mainstream che dei social), ma bisogna prendere atto che, fino ad oggi, la voce della solidarietà - quella della gente comune, dalla cosiddetta società civile alle parrocchie, dai collettivi alle associazioni, quella insomma che si è storicamente attivata per supplire alle carenze istituzionali dello stato, e che abbiamo conosciuto, per quanto riguarda l’accoglienza a cittadini stranieri, sin dal marzo del 1991, quando gli uomini e le donne del brindisino accolsero gli albanesi giunti nel porto della loro città – ecco, quella solidarietà a Gorino sembra essere scomparsa o, se esiste, non ha trovato spazio per esprimersi. Per lo meno pubblicamente.

Non è la prima volta che il racconto mediatico veicola l’immagine di una comunità, compattata dalla paura dello straniero, che si organizza per resistere alla presunta invasione e per preservare il suo territorio. Era successo a Rosarno, nella piana di Gioia Tauro, nel 2010, quando i braccianti africani si ribellarono alle inumane condizioni di vita a cui erano sottoposti o, ancora, a Manduria, in provincia di Taranto, nel 2011, quando venne istituita una tendopoli denominata Centro di Accoglienza e Identificazione, in cui furono “accolti”, dalla sera alla mattina, circa 20 mila cittadini tunisini giunti in Italia sulle coste di Lampedusa.  

In entrambi i casi (due tra i tanti esempi possibili), i primi racconti mediatici, erano stati quasi unanimi nel descrivere le due comunità come impaurite, unite contro gli stranieri, comunità in cui gruppi di cittadini si organizzavano, come effettivamente accadde, per “difendersi” dagli stranieri[1]. Stranieri che, in un caso, quello di Rosarno, mettevano a ferro e fuoco la città; nell’altro, quello di Manduria, non si sapeva cosa avrebbero potuto fare, ma che sicuramente avrebbero turbato l’equilibrio e la serenità della tranquilla cittadina. Basta riguardare i telegiornali o rileggere gli articoli della stampa di quei gironi, per vedere quanto quel tipo d’immagine fosse diffusa. Un’immagine però che fu messa in discussione nel giro di pochi giorni, anche a livello mediatico, proprio dall’organizzarsi e dal venire fuori di associazioni e reti di associazioni, parrocchie, attivisti, comitati di cittadini autorganizzati, sindacati di base che presero la parola, supportarono i migranti e, allo stesso tempo, contribuirono a creare un’altra narrazione.
A Gorino, a distanza di oltre una settimana dai fatti, questo non è avvenuto. Non ho elementi per spiegarne il motivo, ma il fatto che non sia avvenuto, che pubblicamente non ci siano state voci contrarie a quella di chi non voleva sul proprio territorio 11 donne e 8 bambini è un dato, preoccupante, di cui prendere atto. Anche perché, quanto accaduto a Gorino, sta accadendo, da diverso tempo, in tante altre realtà che non conoscono però la stessa visibilità che ha avuto Gorino. 

Le barricate, le ronde, i comitati di protesta non sono certo stati inventati lo scorso 24 ottobre. Forse, nel caso di Gorino, questo assetto anti-immigrati ha raggiunto connotati grotteschi e tragici allo stesso tempo: è affettivamente difficile vedere scendere in strada trecento persone contro l’arrivo di altre 20, per di più donne e bambini. Si sbaglierebbe però a considerare quanto accaduto una specificità del piccolo borgo ferrarese. Anzi, derubricare quanto accaduto ad un evento eccezionale, mi pare che non consenta di cogliere alcune contraddizioni che investono l’Italia e che il “caso Gorino” esemplifica ed estremizza.

Nonostante la retorica rassicurante degli italiani brava gente, degli italiani immuni dal virus del razzismo in virtù del loro passato, del popolo di santi, poeti e navigatori, gli studi in materia, ci ricordano, da almeno un trentennio, che l’Italia è un paese che conosce una preoccupante diffusione di pratiche e atteggiamenti razzisti, tanto tra la gente quanto tra le sue istituzioni.
Si tratta di pratiche la cui diffusione è indubbiamente favorita dal clima d’incertezza e crisi vissuto dalla maggioranza dei cittadini, aspetto però che non deve, e non può, in alcun modo, essere usato come elemento di giustificazione. La storia ci ricorda come le più grandi crisi economiche e sociali dello scorso secolo siano state il preludio per l’ascesa di movimenti reazionari e xenofobi divenuti egemoni, grazie anche al malcontento popolare, e cristallizzatesi poi nelle forme totalitarie che hanno tragicamente segnato la vita dei paesi europei e di gran parte del mondo. Movimenti reazionari che, anche se in forme diverse, oggi si ripresentano, conquistano consenso e che qualcuno, purtroppo anche a sinistra, considera interlocutori con cui avviare percorsi politici per innescare contraddizioni e cambiamenti sistemici.

Le migrazioni sono sempre state processi complessi, capaci di disvelare caratteristiche strutturali delle società globalizzate, tendenze socio-politiche ed economiche che caratterizzano tanto i paesi di partenza dei migranti, quanto quelli destinazione. Oggi, più di altri fenomeni, possono rappresentare una cartina di tornasole attraverso la quale leggere tutta una serie di contraddizioni che caratterizzano le società contemporanee.

Nel corso degli ultimi decenni, la questione migratoria ha assunto una rilevanza centrale all’interno del dibattito pubblico italiano (e non solo). Le migrazioni sono state uno degli argomenti che maggiormente ha calamitato l’attenzione delle principali competizioni elettorali nelle quali sistematicamente si è riproposto un copione che indubbiamente è risultato vincente sul piano del consenso elettorale: presentare le migrazioni, e i migranti, in primo luogo, come una minaccia all’ordine pubblico e sociale del paese. In questo modo, da un lato, si è potuto facilmente distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai problemi del paese; dall’altro, si è trovato un facile capro espiatorio su cui scaricare la responsabilità delle problematiche sociali. È un tipo di discorso che ha fatto breccia nell’opinione pubblica fino a diventarne quasi senso comune per larga parte.
È questo il frame nel quale, in Italia, hanno preso forma le ultime leggi in materia migratoria, e quello che ha visto il venir fuori di movimenti xenofobi e reazionari che hanno eroso consenso, anche in quello che storicamente era considerato elettorato di sinistra.

Chiaramente non è una situazione solo italiana: dagli anni Settanta, con la crisi dei sistemi fordisti e l’affermazione delle dottrine neoliberiste, le migrazioni sono state sempre più connotate negativamente e presentate come antagoniste al nuovo ordine economico, politico e sociale. Di fronte alla presenza di nuovi cittadini le società hanno risposto – sostanzialmente – in due modi: o con il tentativo di assimilazione di coloro i quali fossero ritenuti utili e buoni attraverso un processo che tendeva a cancellare una diversità che creava ansia e paura; oppure con l’esclusione, allontanando fisicamente e socialmente gli stranieri, facendoli sparire dalla stessa percezione e dall’orizzonte sociale attraverso dispositivi e meccanismi legislativi tendenti a creare un perenne stato di eccezione. Si pensi ai meccanismi di legge che mantengono artatamente in condizione d’irregolarità o rendono altamente precaria la permanenza regolare dei migranti.

Il caso italiano è un caso paradigmatico nel contesto europeo: fino a cinque anni fa, il processo di depauperamento della capacità contrattuale dei cittadini stranieri avveniva con una serie di strumenti legislativi restrittivi previsti dalla cosiddetta Bossi-Fini, la n. 189 del 2002, che andavano dal dispositivo dell’arbitrio con cui erano stabilite le quote di ingresso all’interno dei decreti flussi, quote che invece che garantire nuovi ingressi servivano al più a regolarizzare una piccola parte di coloro i quali erano già presenti in Italia, e che pur avendo tutti i requisiti per risiedere regolarmente erano costretti all’irregolarità, al contratto di soggiorno, passando per la reclusione all’interno dei Centri di Identificazione ed Espulsione, vere e proprie fabbriche di irregolarità amministrativa, oltre che luoghi di sospensione dei diritti.

Oggi, dal 2011, da quando, di fatto, è impossibile entrare in Italia per motivi lavorativi, è il sistema di accoglienza pensato - è bene ricordarlo - dal Ministro Maroni, che assolve a questo compito. Dal 2011, chiunque si occupi di migrazioni sa che l’unico modo per entrare in Italia per un cittadino straniero è quello di dichiararsi perseguitato politico ed entrare quindi all’interno di un sistema fatto di hotspot, centri di prima e/o seconda accoglienza e luoghi informali in cui i cittadini stranieri sono costretti a svolgere la propria vita per un periodo di tempo più o meno lungo, spesso passando da uno all’altro di questi luoghi, il più delle volte in balia di eventi e circostanze di tipo kafkiano.
Gli effetti principali dell’attuale sistema di accoglienza italiano, sia sul piano della vita dei soggetti che su quello socio-economico, sono visibili nei tanti ghetti che puntellano le traiettorie del lavoro agricolo stagionale in Italia. Luoghi abbietti, abitati sempre di più da cittadini transitati dal sistema di accoglienza italiano o, addirittura, da chi è ancora inserito all’interno del sistema di accoglienza. Si tratta di masse di lavoratori assoggettati a pratiche di sfruttamento feroce.

Il sistema di accoglienza italiana (ed in generale anche quello europeo) non prende minimamente in considerazione quella che è la volontà o il progetto migratorio dei singoli, di conseguenza non può che incidere negativamente tanto sulla vita dei cittadini stranieri costretti loro malgrado ad adattarsi a prassi che, nella maggior parte dei casi, si configurano come uno degli elementi che maggiormente mina il progetto migratorio dei singoli[2], quanto sull’opinione pubblica, alla quale spesso sfugge il meccanismo di funzionamento del sistema di accoglienza e rimane invischiata nella retorica costruita politicamente e mediaticamente degli stranieri ingrati, anche questa non nuova nel caso italiano[3], ai quali sarebbe garantito vitto e alloggio a discapito degli italiani e che, nonostante ciò, non sarebbero nemmeno riconoscenti per quanto loro offerto. Una retorica che fa il paio con quella, particolarmente cara al prefetto Morcone, e avallata da tante realtà, anche di sinistra, del lavoro gratis svolto dai richiedenti asilo in diverse città in cambio dell’ospitalità.
Tutto ciò, come è facile capire, concorre alla creazione di uno sfondo, di un insieme di assunti e luoghi comuni che contribuiscono, in maniera determinante, a inferiorizzare i migranti trasformandoli in pedine sulle cui vite giocare la partita del consenso elettorale. Si tratta di un’operazione particolarmente performante, se è riuscita a trasformare 11 donne e 8 bambini in un nemico da cui difendere la comunità.

Nel vuoto della politica istituzionale, il tema delle migrazioni e dei diritti dei cittadini migranti è sparito dalle battaglie dei partiti. È rimasto quasi esclusivamente nelle rivendicazioni di qualche leader desideroso di fare scalpore e guadagnarsi voti con la demagogia della crociata contro gli invasori stranieri. Vent’anni di approccio emergenziale e securitario hanno cambiato il senso comune della gente, creando una falsa contrapposizione tra migranti e autoctoni, scaricando  surrettiziamente sui migranti le tensioni sociali e le paure interne alle società. In questo scenario, la battaglia per i diritti dei cittadini migranti è sparita anche da una larga parte delle realtà sociali, un tempo impegnate su questo tema, e oggi, in non pochi casi, impegnate sul tema dell’accoglienza in maniera professionale.

La lotta per i diritti dei migranti resta, in primo luogo e oggi più che mai, una battaglia per i diritti di tutti, una battaglia intrecciata essenzialmente con la questione dell’uguaglianza sociale e con l’idea di società che si vorrà costruire. Qualcosa che non è più possibile continuare ad ignorare, soprattutto a sinistra. 



[1] È bene ricordare che, nella quasi totalità dei casi, ad organizzarsi contro i cittadini stranieri - nel caso di Manduria si arrivò a formare addirittura delle ronde che sequestrarono alcuni cittadini stranieri - erano non semplici cittadini, come si ripeteva da più parti, ma soggetti con simpatie e percorsi di partecipazione in realtà politiche della galassia dell’estrema destra, da casa paund al movimento sociale italiano. Anche nel caso delle rivolte di Gorino appare esserci poco di spontaneo, anzi, ben guardare, è chiaramente identificabile la matrice e la regia politica. 
[2] L’obbligo di chiedere asilo politico nel primo stato membro dell’UE previsto del trattato di Dublino è uno degli esempli più eclatanti di ciò.
[3] L’accusa di ingratitudine era per esempio una di quelle che più veniva mossa ai cittadini albanesi negli anni Novanta, erano degli ingrati perché si lamentavano di quanto era loro offerto, specie in relazione alle loro condizioni salariali, salvo poi scoprire che quello offerto, molto spesso, era assai lontano dai minimi sindacali. 

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