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sabato 20 maggio 2017

Un difficile anniversario. Breve cronaca di un processo di regressione dei diritti in Italia

Due uomini in cerca di lavoro durante la Grande Depressione americana del 1929

di  Antonio Ciniero e Ilaria Papa


Il 20 maggio 1970 veniva promulgato lo Statuto dei Lavoratori, uno dei più avanzati testi giuridici di tutela dei diritti dei lavoratori. 

Nel 1997 viene promulgata la legge n. 196, più conosciuta come pacchetto Treu, dal nome dell’allora ministro del lavoro e oggi presidente del CNEL, l’ente che lo stesso Treu voleva abolirle fino allo scorso 4 dicembre.

Nel 2003 viene approvata la legge n. 30 (da alcuni chiamata impropriamente legge Biagi). 

Nel 2014 viene  approvata la legge n. 183 (il cosiddetto Jobs Act).


Non occorre essere esperti giuristi per accorgersi che la tutela dei lavoratori che ogni legge prevede è inversamente proporzionale all’anno di emanazione della legge stessa. Più è recente la legge, meno sono le tutele per i lavoratori.

Nel corso degli ultimi quarant’anni la forza contrattuale dei lavoratori ha conosciuto sempre maggiori forme di limitazione attraverso l’introduzione di molteplici e meno garantite forme contrattuali - lavoro part-time, formazione lavoro, apprendistato, lavoro temporaneo, lavoro a progetto, collaborazione occasionale, lavoro intermittente, lavoro a chiamata, lavoro ripartito, lavoro interinale, lavoro somministrato,… - e la soppressione di alcuni importanti istituti giuridici di tutela dei lavoratori, come l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

È un caso? È casuale che la riduzione dei diritti dei lavoratori si accompagni di pari passo con la perdita della capacità di azione politica degli attori collettivi (sindacati e partiti) in grado di rappresentare gli interessi collettivi dei lavoratori? 

È un caso che con il passare degli anni i processi di impoverimento investano sempre più ampie fasce di popolazione nel nostro paese? 

È un caso che tra le “nuove” forme di povertà compaiano proprio i lavoratori, i soggetti in possesso di un lavoro? 

È un caso che si continui a parlare di scomparsa delle classi sociali? 

Certo che se è un caso, tutti noi - lavoratori flessibili, disoccupati, sottoccupati, occupati ad intermittenza, precari, “giovani” o con qualunque altra etichetta volessimo individuare - siamo proprio sfortunati. Se invece non è un caso, se tutto ciò è il portato delle politiche economiche neoliberiste, se è conseguenza della ridefinizione dei rapporti di potere che sottendono il vecchio, ma sempre attuale, conflitto capitale/lavoro, allora, forse, più che sfortunati, siamo rassegnati e in parte indifferenti, schiacciati dai processi di individualismo esasperato, corollario delle politiche neoliberiste, che cercano di ridurre uomini e donne a meri consumatori o esecutori, senza alcuna creatività.

Questo continuo processo di regressione dei diritti viene portato sistematicamente alla luce dalle migrazioni contemporanee (incluse quelle a livello intraeuropeo) che rendono evidenti le contraddizioni che attraversano l’attuale modello di sviluppo economico. È anche per questo che proprio adesso si assiste a un processo di criminalizzazione delle migrazioni e dei migranti (compresi i migranti comunitari, si pensi a quanto sta avvenendo in Inghilterra dopo il referendum sulla brexit) che non ha precedenti nella storia recente. Ed è probabilmente per questo motivo che in Italia molte delle lotte per i diritti del lavoro negli ultimi anni sono state portate avanti proprio da lavoratori stranieri. Il lavoro dei migranti, maggiormente precarizzato, diviene un elemento di tensione costante all’interno del lavoro contemporaneo.  

È dal lavoro, dal riconoscimento della centralità che esso occupa nelle contemporanee società che bisognerebbe ripartire per costruire percorsi e strade da intraprendere in grado di fornire un’alternativa praticabile all’insostenibilità dell’attuale sistema politico ed economico, un’alternativa che non potrà che essere meticcia.


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