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mercoledì 27 settembre 2017

Informazione, processi di etnicizzazione e decisioni politiche. I rischi di una spirale viziosa




di Antonio Ciniero


Quella che segue è la Postfazione alla ricerca Non dire rom curata da Roberto Mazzoli per l’Associazione 21 Luglio. Per scaricare la ricerca completa cliccare qui.


Dieci anni fa, nella stazione romana di Tor di Quinto, veniva brutalmente uccisa la signora Giovanna Reggiani. Questo doloroso avvenimento di cronaca ha segnato il momento in cui, in Italia, la cosiddetta “questione rom” è tornata a essere declinata con grande eco nel discorso pubblico, tanto sul piano della comunicazione mediatica, quanto su quello del dibattito politico. L’edizione on line del Corriere della Sera – solo per citare un esempio tra tanti – per raccontare l’episodio sceglieva il titolo Giovanna Reggiani è morta, preceduto dall’occhiello Orrore a Roma: saranno abbattute le baracche abusive a Tor di Quinto. Ad accompagnare le foto delle operazioni di polizia, la didascalia Seviziata da rom, controlli nel campo nomadi. [1] Il fatto che a commettere l’omicidio fosse un ventiquattrenne con cittadinanza romena, residente da qualche mese all’interno di un campo informale che sorgeva nei pressi della stazione di Tor di Quinto, amplificò con forza il clamore suscitato dalla notizia, facendo sì che l’episodio travalicasse rapidamente gli steccati della cronaca nera, assumendo, sin da subito, una forte connotazione politica e, a tratti, anche strumentalmente ideologica, che animò il dibattito nell’intero paese.
Il giorno seguente l’omicidio, il sindaco di Roma, Walter Veltroni, da poco divenuto il primo segretario del Partito Democratico, lanciava un allarme sicurezza che avrebbe condizionato non solo l’agenda politica del governo della città di Roma, ma anche quella del governo nazionale, allora presieduto da Romano Prodi, che, proprio sulla spinta di quel fatto di cronaca, convocò il Consiglio dei Ministri che introdusse limitazioni all’ingresso e al soggiorno in Italia per i cittadini romeni, da pochi mesi divenuti cittadini comunitari.[2] Qualche mese dopo, nel maggio del 2008, il nuovo governo con maggioranza di centro-destra, guidato da Silvio Berlusconi, emanava un decreto con il quale si sanciva in Italia l’esistenza di un’“emergenza nomadi”. [3] Quel decreto diede poteri speciali ai prefetti di Roma, Napoli e Milano per affrontare la presunta emergenza e diede loro, tra l’altro, la possibilità di gestire ingenti somme di denaro pubblico in deroga alle procedure ordinarie previste dalle leggi.[4] Si tratta di un esempio, forse il più eclatante, in cui racconto mediatico e decisioni pubbliche si sono condizionati vicendevolmente in modo perverso.
In questi ultimi dieci anni, i rom – complice anche il diffuso antiziganismo – sono stati ciclicamente trasformati in un facile catalizzatore del malcontento popolare su cui scaricare, surrettiziamente, la responsabilità di problemi sociali lasciati irrisolti. Allo stesso tempo, i rom sono stati un costante oggetto di propaganda politica su cui costruire consenso elettorale, tanto nelle elezioni amministrative quanto in quelle politiche. Interrogarsi sugli effetti del linguaggio utilizzato nella costruzione delle notizie, come ha fatto questa ricerca dell’Associazione 21 luglio, non è quindi una questione di secondaria importanza, né è semplicemente riconducibile al tema del politically correct, cui spesso viene derubricata. Esistono ragioni assai più profonde, che hanno a che vedere con la stessa vita democratica del paese, dato il nesso esistente tra informazione e costruzione del consenso politico.
L’informazione mediata ha sempre avuto un ruolo preminente nel formare e orientare l’opinione pubblica e oggi, sempre più spesso, questa passa attraverso i canali virtuali del web. È pertanto molto importante la scelta di avviare una riflessione sul modo in cui si possa modificare la percezione di un fenomeno quando questo viene raccontato in maniera diversa, utilizzando un linguaggio maggiormente appropriato, meno connotato e connotativo, ed è parimenti importante che questa scelta sia legata al monitoraggio dell’attività informativa di un giornale on line di grande rilevanza come lo è RomaToday.
L’indagine ha raggiunto significativi risultati, e non solo sul piano strettamente conoscitivo. Come raccontano i giornalisti della redazione di RomaToday, la partecipazione al lavoro d’indagine ha contribuito a modificare, in parte, la loro stessa percezione dei fatti che narravano, quando hanno iniziato a scrivere gli articoli seguendo le “linee guida” che chiedevano di sostituire i termini connotati etnicamente (“campo rom”, “rom”) con termini in cui veniva meno tale connotazione (“baraccopoli istituzionali o abusive”). La semplice rimozione dell’aggettivazione etnica aiuta a ridare maggiore complessità alla realtà raccontata, perché spinge a prendere in considerazione aspetti e dinamiche sociali che l’aggettivazione etnica contribuisce a mascherare.
Nel caso dei rom, la tendenza a definire e leggere in termini etnici quelle che sono in realtà dinamiche sociali è particolarmente diffusa, e in Italia probabilmente lo è più che in altri paesi. Quest’indagine, quindi, ha il merito di contribuire a problematizzare e riaprire una discussione sul modo in cui il discorso pubblico concorre a costruire e ridefinire etnicamente processi che invece originano principalmente da dinamiche sociali, politiche ed economiche.

La questione della definizione categoriale di chi possa essere o meno considerato rom è una questione annosa, sebbene nel discorso pubblico e nell’azione politica venga data spesso per scontata: non è una soluzione condivisa, né sul piano degli studi scientifici, né su quello della definizione politico-legislativa.[5] Non esistono criteri oggettivi per determinare chi sia rom e chi non lo sia. Esistono paesi in cui i rom sono riconosciuti come minoranza e altri in cui non lo sono; non tutti coloro che si autodefiniscono o sono definiti rom parlano la stessa lingua, o condividono una religione comune; inoltre i gruppi rom hanno provenienze geografiche diverse, così come molto diverse sono le condizioni socio-economiche o i livelli di scolarizzazione. Anche i tassi di partecipazione alla vita politica dei paesi nei quali i rom vivono cambiano sensibilmente, sia in termini di partecipazione attiva che passiva (Bačlija, Haček, 2012; McGarry, Timofey, 2014).
Nonostante questa varietà, considerare i rom come appartenenti a gruppi etnici e/o con caratteristiche culturali comuni e rigidamente definite è stato e continua a essere un approccio piuttosto diffuso in parte della letteratura sul tema e, soprattutto, nell’azione politica che le istituzioni pubbliche mettono in campo. D’altra parte, il processo di costruzione di un’immagine più o meno omogenea – in alcuni casi essenzialista – con cui viene identificata la cultura rom, iniziato nel Settecento con la diffusione delle teorie sull’origine indoariana del romanes,  continua ancora oggi a condizionare, in particolare, il discorso pubblico sui rom (Sigona, 2006).
È un discorso alla cui formazione partecipano, a diversi livelli, molti attori: politici, rappresentanti istituzionali, attivisti, associazioni, media, artisti e rappresentanti delle élites romanì[6] (McGarry, 2014) che veicolano, a seconda dei casi, immagini con cui identificare la cultura rom: devianza, precarietà economica, disagio abitativo, ma anche rivendicazione in positivo di aspetti legati dell’uso del romanes, al mito fondativo della comune discendenza indoariana di tutti i rom o alle rappresentazioni artistiche, elementi parziali sui quali si basa, di volta in volta, la rappresentazione complessiva della storia, dell’identità e della cultura romanì (Daniele, 2010), tralasciando, del tutto o in parte, tutti gli aspetti di negoziazione dinamica dei singoli nella sfera pubblica e anche in quella privata (Benhabib, 2002).
Questo tipo di definizione culturalista dei rom in Italia ha influenzato pesantemente l’azione politica delle istituzioni pubbliche e delle organizzazioni sociali. È il caso delle leggi regionali che dagli anni Ottanta hanno istituito in diverse regioni italiane aree sosta da destinare alla residenza esclusiva dei rom, o anche l’istituzione negli anni Settanta delle classi lacio drom.[7] Il condizionamento culturalista dell’azione politica non è però solo un retaggio del passato: ancora nel 2016, la strategia della Regione Emilia Romagna per l’integrazione dei Rom, Sinti e Caminanti, quando affronta il tema del lavoro, afferma che la cultura zingara non appare generalmente compatibile con un inserimento occupazionale basato su una prestazione lavorativa giornaliera da portare avanti secondo un numero costante di ore alle dipendenze di terzi (p. 45). [8]
Tra le ricadute maggiormente contradditorie di questo tipo di impostazione, c’è la ridefinizione, su un piano di presunte differenze culturali, di ciò che in molti casi è invece conseguenza di diseguaglianze sociali, reiterate per generazioni, in parte incentivate o mantenute proprio dagli interventi politici. In questo modo, per riprendere l’esempio sopra riportato, le difficoltà di accesso al lavoro, anziché essere affrontate partendo dalle dinamiche socio-economiche in cui prendono forma, vengono aprioristicamente ascritte a stili di vita e modelli comportamentali che si inscriverebbero in un approccio culturalmente diverso che i rom avrebbero verso il lavoro.
Il superamento della visione culturalista, tanto sul piano dell’azione politica, quanto su quello degli studi in materia, e ancor più nella percezione e nel senso comune, è uno dei presupposti necessari non solo per ri-contestualizzare i processi di inclusione/esclusione dei gruppi rom nelle più generali  dinamiche in cui prendono forma, ma anche per instaurare relazioni sociali sempre meno connotate negativamente da stereotipi e pregiudizi.
Se è vero che i gruppi rom sono stati storicamente considerati come un’alterità irriducibile in quasi tutte le società, è altrettanto vero che l’esclusione e l’inferiorizzazione non sono elementi trascendenti, decontestualizzati e a-storici. Per diverso tempo e in diverse parti del mondo, si sono avuti processi di interazione, complementarietà economica e sociale tra gruppi rom e società maggioritarie che, anche se connotati da pregiudizi negativi, non hanno impedito forme di interazione positiva e scambi sociali, si pensi al caso di alcuni gruppi rom dell’Italia meridionale, dove, l’assenza di politiche definite etnicamente e rivolte in maniera specifica ai rom, ha indubbiamente favorito i processi di inclusione sociale (Ciniero, 2017). Da questi esempi sarebbe il caso di ripartire per la pianificazione di percorsi di inclusione sociale. L’esclusione sociale di cui parte dei rom oggi è vittima è, in primo luogo, una questione di politica sociale e come tale dovrebbe essere affrontata. Le risposte vanno cercate in politiche di welfare universalistiche, e non in anacronistiche politiche etniche.




Bibliografia

Bačlija I., Haček M. (2012), Minority Political Participation at the Local Level: e Roma, in International Journal on Minority and Group Rights,  n. 19, 53–68.
Benhabib S. (2002), The Claims of Culture: Equality and Diversity in the Global Era, Princeton University Press, Princeton.
Bontempelli S. (2015), L’invenzione degli zingari. la questione rom tra antiziganismo, razzismo ed etnicizzazione, in Iperstoria – Testi Letterature www.iperstoria.it Numero VI - Autunno/Fall 2015, Verona, pp. 43-56.
Ciniero A. (2017), Mascarimirì, come legge! Percorsi scolastici, identità e rielaborazione delle appartenenze culturali nel racconto intergenerazionale di una famiglia rom dell’Italia meridionale. Note su un’indagine in corso, in Rivista di Storia dell‘Educazione, [S.l.], v. 4, n. 1, june 2017, pp. 31-49. L’articolo è consultabile a questo link https://rivistadistoriadelleducazione.it/index.php/RSE/article/view/20.
Daniele U. (2010), Zingari di carta. Un percorso nella presa di parola rom ai tempi dell’emergenza, in Zapruder, n. 21, Odradek, Roma. pp. 57-72.
McGarry A. (2014), Roma as a political identity: Exploring representationsof Roma in Europe, in Ethnicities, Vol. 14 (6) 756–774.
McGarry A, Timofey A. (2014), Unpacking the Roma Participation Puzzle: Presence, Voice and Influence in Journal of Ethnic and Migration Studies, Vol. 40, No. 12, 02.12.2014, p. 1972-1990.
Piasere L. (1995), Introduzione in Piasere L. (a c. di), Comunità girovaghe, comunità zingare, Liguori, Napoli, pp. 3-38.
Sigona N. (2006), Locating the “Gypsy problem”. The Roma in Italy: Stereotyping, Labelling and Nomad Camps, Journal of Ethnic and Migration Studies, Vol. 31, n° 4, p. 741-756.




* International Center of Interdisciplinary Studies on Migration - Università del Salento.
[2] Sicurezza, Veltroni contro la Romania. Per le espulsioni varato un decreto legge (Repubblica, 31, ottobre, 2007 http://www.repubblica.it/2007/10/sezioni/cronaca/tor-di-quinto/reazioni-uccisa/reazioni-uccisa.html).
[3] La dichiarazione dell’“emergenza nomadi” sarà dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato nel novembre del 2011.
[4] Tra i provvedimenti più criticati che accompagnarono l’emanazione dell’“emergenza nomadi” ci fu anche la decisione  di schedare le impronte digitali di tutti i minori presenti nei campi. Nel 2013 tale decisione, configurandosi come una schedatura su base etnica, fu condannata e giudicata illegittima dalla seconda sezione civile del Tribunale di Roma.

[5] Piasere, già nel 1995, ricordava che il concetto di “zingari” aveva una struttura categoriale particolare: mancava di tratti necessari e sufficienti per definire in maniera esclusiva ed esaustiva quali fossero gli individui che potevano essere definiti “zingari”.
[6] È dagli anni Settanta del Novecento che la specificità etnica dei gruppi rom inizia a essere rivendicata dagli stessi attivisti. Si svolge nel 1971, a Londra, il primo congresso mondiale delle comunità rom nel quale si stabiliscono i simboli ancora oggi usati per identificare simbolicamente l’unità delle comunità romanes: l’inno, la bandiera e una data per celebrare la giornata mondiale dei rom. Il secondo congresso, del 1979, sancisce la nascita dell’IRU (International Romani Union), prima organizzazione rom di scala internazionale. In quegli anni, in Italia, l’Opera Nomadi comincia a sostenere la necessità di nuove politiche abitative e scolastiche consone agli “stili di vita dei rom”. La connotazione etnico-culturale dell’appartenenza continua ancora oggi a essere il riferimento per molte delle rivendicazioni politiche di una parte degli attivisti rom.
[7] Istituite nel 1965 attraverso un protocollo di intesa tra il Ministero dell’Istruzione e l’Opera Nomadi, queste classi speciali, destinate esclusivamente a bambini rom e sinti, furono soppresse definitivamente solo nel 1982.
[8] Esempi di questo tipo sono numerosissimi: vanno dalla Pastorale degli Zingari della Chiesa cattolica, ai documenti UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziali del Governo italiano), alle relazioni delle forze dell’ordine, di assistenti sociali e di magistrati (Bontempelli, 2015). 

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