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mercoledì 21 marzo 2018

"La scelta è nostra". L'Europa, le sue radici e i suoi confini: dalle persecuzioni nazi-fasciste alle stragi in mare.


Gli ebrei di Saint Martin Vesubie (photo Puntosanremo)


 di ILARIA PAPA
 
Racconta Liliana Segre, nel suo libro "Sopravvissuta ad Auschwitz" (2005), un fatto che cambiò il corso della sua vita: quando, bambina, il 7 dicembre del 1943, tenendo per mano suo padre, passò il confine italo-svizzero attraverso un buco della rete di recinzione. La gioia di trovarsi sul suolo svizzero – una terra neutrale che avrebbe potuto offrire salvezza a quel piccolo gruppo che, come altri gruppi di ebrei, antifascisti, renitenti alla leva, cercava scampo in quel periodo tra i sentieri di montagna – fu presto interrotta dalle guardie di confine svizzere. Scrive Liliana:

Infatti, al comando di polizia, dopo una lunga attesa – senza dirci una parola, senza darci un bicchiere d'acqua né un pezzo di pane – l'ufficiale di turno ci condannò a morte. Ci trattò con disprezzo estremo, disse che eravamo degli imbroglioni, che la Svizzera era piccola e non c'era posto per noi. Ci rimandava indietro.

Delle quattro persone che costituivano quel gruppetto - Liliana, di tredici anni, suo padre e due cugini, finiti in campo di concentramento nazista per essere stati "rimandati indietro" da quel comandante rimasto senza nome e poi arrestati dai finanzieri italiani - solo Liliana sopravvisse. Io non morii, solo per caso, scrive.
Guardando ad altre storie, ci si rende conto di quanto le vie scelte/percorse nei momenti di pericolo da chi fugge, come pure i singoli avvenimenti e incontri su quelle vie (con passeurs, militari, politici, medici, funzionari, persone comuni), possano fare la differenza fra la vita e la morte in certe circostanze. Migliaia di persone, a quel tempo, furono tradite, denunciate, abbandonate. Altre ebbero un destino differente e si salvarono, superando inosservate lo stesso confine: tra gli ebrei, circa 6000 riuscirono a passare. Solo per quanto riguarda la Svizzera, tra la seconda guerra mondiale al 1943, trovarono rifugio circa 40000 italiani in fuga dal fascismo, tra cui non pochi intellettuali che contribuirono alla rinascita dell'Italia nel dopoguerra. Tra essi, Ignazio Silone (finito anche in carcere per attività antifascista e per aver violato la neutralità svizzera), Giansiro Ferrata (che da lì progettava libri da pubblicare una volta finita la guerra, tra cui le prime traduzioni italiane di Hemingway), Franco Fortini, Dante Isella, Alberto Mondadori, Diego Valeri, Giorgio Strehler, Luigi Einaudi, Gianfranco Contini, Ernesto Rossi.
Quanto a Liliana Segre, oggi senatrice a vita, è stata anche testimone, come coloro che trovarono una diversa accoglienza in quello stesso Paese che l'aveva respinta, della storia che cambiava: Auschiwtz abbandonata dai nazisti, e poi l'Europa liberata.

La stessa Europa oggi, ottant'anni dopo quei fatti, sembra aver smarrito gran parte del senso più profondo di quelle storie e di quei percorsi. Da una parte, sembra voler tenere in mano il filo e il legame con quel passato doloroso, per non perderlo, perché non accada mai più. Si moltiplicano iniziative per la memoria delle persecuzioni naziste e fasciste - non solo contro gli ebrei, ma anche contro i rom - della repressione di migliaia di vite umane, solo perché, per qualche ragione, classificate come diverse da un regime politico predatorio. È, per esempio, encomiabile il progetto dei Nomi della Shoah in cui sono pubblicati i nomi e le foto di 7000 persone, inclusi bambini, vittime della persecuzione e inghiottite dalla storia. Riaffiorano quei nomi e diventano per tutti, perché ognuno ha diritto alla memoria. Dall'altra parte, l'Europa sembra voler rimuovere la memoria delle migliaia di migranti che il mar Mediterraneo, ormai diventato un cimitero, continua a inghiottire da anni. C'è chi chiede giustizia anche per questi nuovi desaparecidos, ricordando che anche loro – uomini, donne, bambini – avevano un nome, una famiglia, una storia; che sono morti, non a causa di una fatalità, ma per i corsi e i ricorsi della storia, per l'indifferenza e il silenzio di molti, come direbbe qualcuno, mentre cercavano di raggiungere l'Europa per avere una vita degna di essere vissuta.

mercoledì 14 febbraio 2018

Etnicizzare il sociale. Rischi e contraddizioni di un approccio esclusivo sull’identità e la cultura





Abstract della relazione che sarà presentata in occasione del Convegno Riconoscimento, tutela e promozione sociale delle comunità rom e sinte in Italia. Quali azioni promuovere che si svolgerà il 20 febbraio, presso la Sala degli Atti Parlamentari, Biblioteca del Senato “Giovanni Spadolini”, Piazza della Minerva 38, Roma.


Qui, la registrazione video completa del convegno.


di Antonio Ciniero


La questione di chi possa essere o meno considerato rom non ha una soluzione condivisa, né sul piano degli studi scientifici, né su quello della definizione politico-legislativa. Non esistono criteri oggettivi per determinare chi sia rom e chi non lo sia: esistono paesi in cui i rom sono riconosciuti come minoranza e altri in cui non lo sono; non tutti coloro che si autodefiniscono o sono definiti rom parlano la stessa lingua, o condividono una religione comune; inoltre i gruppi rom hanno provenienze geografiche diverse, così come molto diverse sono le condizioni socio-economiche o i livelli di scolarizzazione. Anche i tassi di partecipazione alla vita politica dei paesi nei quali vivono cambiano sensibilmente, sia in termini di partecipazione attiva che passiva (Bačlija, Haček, 2012; McGarry, Timofey, 2014).

Nonostante questa varietà, considerare i rom come appartenenti a gruppi etnici e/o con caratteristiche culturali comuni, più o meno rigidamente definite, è stato e continua ad essere un approccio piuttosto diffuso in parte della letteratura sul tema e, soprattutto, nell’azione politica che le istituzioni pubbliche mettono in campo. Sul piano sociale e culturale, il processo di costruzione di un’immagine più o meno omogenea - in alcuni casi essenzialista - con cui viene identificata la cultura rom, iniziato nel Settecento con la diffusione delle teorie sull’origine indoariana del romanes,  continua ancora oggi a condizionare, in particolare, il discorso pubblico sui rom (Sigona, 2006). È un discorso alla cui formazione partecipano, a diversi livelli, molti attori: politici, rappresentanti istituzionali, attivisti, associazioni, media, artisti e rappresentanti delle élites romanì (McGarry, 2014), che veicolano, a seconda dei casi, immagini con cui identificare la cultura rom: devianza, precarietà economica, disagio abitativo, ma anche rivendicazione in positivo di aspetti legati dell’uso del romanes, al mito fondativo della comune discendenza indoariana di tutti i rom o alle rappresentazioni artistiche, elementi parziali sui quali si basa, di volta in volta, la rappresentazione complessiva della storia, dell’identità e della cultura romanì (Daniele, 2010), lasciando da parte, tra l’altro, tutti gli aspetti di negoziazione dinamica dei singoli nella sfera pubblica e anche in quella privata (Benhabib, 2002).

domenica 4 febbraio 2018

L’Italia è attraversata dalla violenza razzista e sessista: è tempo di reagire

Photo credit: Ilaria Papa

di Antonio Ciniero e Ilaria Papa

  
L’Italia è attraversata dalla violenza razzista e sessista. Ciò che è successo a Macerata non è, purtroppo soltanto un caso isolato, il gesto estremo di una personalità definita borderline, esasperata magari da altri problemi e fatti, come velocemente è stato dichiarato su diversi media, anche stranieri, e da alcuni esponenti politici. C’è una vasta, complessa trama, in alcuni punti più lenta e sottile, quasi invisibile, impalpabile, in altri più immediatamente percepibile, che attraversa l’Europa e, in particolare, l’Italia. Episodi come quello di Macerata, che evocano con forza fantasmi ed incubi da un passato che pensavamo non sarebbe potuto tornare, rappresentano solo alcuni nodi più evidenti di questa rete di fatti e idee. Era un simpatizzante di Forza Nuova anche l’uomo che a gennaio ha ucciso la moglie e sparato sulla folla dal balcone di casa nel Casertano.
Sia chiaro, la violenza sessista è un fatto trasversale a status, classi, definizioni politiche e nazionalità. Tuttavia, qualunque cosa ne dicano gli accusatori soltanto per “profilo etnico” (nel caso degli autoctoni, si tratterebbe sempre di cose da poco o sarebbero le donne ad essersela andata a cercare, come qualche politico ha dichiarato dopo i fatti di Firenze che hanno visto due carabinieri indagati per stupro), alcune connessioni, alcuni legami, trasversali a partiti e idee politiche, classi, età, tali da creare influenze, alimentare problematiche e comportamenti, ci sono e sono rintracciabili in alcune condotte, che, a voler guardare, risultano chiare. Queste condotte, se ci sta a cuore il futuro della nostra democrazia, il valore della vita di tante persone, dei nostri figli e di noi stessi, di quello che siamo e abbiamo costruito, dovrebbero essere smascherate, rivelate, portate alla luce e denunciate, combattute, il più possibile.

martedì 16 gennaio 2018

da Radio Onda d'Urto. IMMIGRATI: LA POLITICA ELETTORALE ALLE PRESE CON UN’INVASIONE CHE NON C’E’





Sono 841 i migranti sbarcati in Italia nelle prime due settimane di gennaio, il 64% in meno rispetto allo stesso periodo del 2017, quando gli arrivi via mare furono 2.355. Lo evidenzia il Viminale.
In forte calo le persone giunte dalla Libia, seguendo un trend avviato a luglio: sono 544, contro le 2.188 dello 2017. Gli arrivi di quest’anno vedono in testa, come nazionalità, senegalesi (90), seguiti da nigeriani (56), gambiani (50), marocchini e guineani (42). Sul fronte delle richieste d’asilo, nel 2017 sono state esaminate 80 mila domande su un totale di 130 mila, 10 mila in meno rispetto al 2016.
Quelle accolte sono state appena il 40% (47.839), il che significa che sei richiedenti asilo ogni dieci si sono visti respingere la domanda. A dirlo i dati della Fondazione Ismu che sottolinea come tra quanti hanno avuto un esito positivo crescono coloro che hanno ottenuto lo status di rifugiato (8,5% contro il 5,5% del 2016), mente cala il numero dei  ai quali è stata riconosciuta la protezione sussidiaria.
Uno su quattro, infine, ha ricevuto la protezione umanitaria (riconosciuta per oggettive situazioni personali gravi). Flop totale, infine, sul fronte ricollocamenti. In più di due anni – da settembre 2017 a dicembre 2017 -sono stati trasferiti dall’Italia verso uno Stato Ue solo 11.464 richiedenti protezione. Nella quasi totalità dei casi si tratta di eritrei (95%) seguiti da 521 siriani e da 98 di altre nazionalità. La Germania è il paese che ne ha accolti di più (43%).
A restare altissimo il numero di coloro che hanno perso la vita: nel 2017 si stima siano stati 3.116, in pratica 18 morti ogni mille persone sbarcate. Crescono pure i rimpatri: 6.340 l’anno scorso, contro i 5.300 del 2016. Nonostante ciò il tema  entra prepotentemente nella campagna elettorale con toni da invasione, mentre i numeri, come abbiamo appena ricordato, ci dico altro.


qui il commento di Antonio Ciniero

martedì 9 gennaio 2018

Una società policulturale che pone nuove sfide (articolo Gazzetta del mezzogiorno 9-1-2018)





di Antonio Ciniero

I primi cittadini stranieri non comunitari arrivano nel Salento attorno agli anni ‘80. Provengono dal Marocco, dal Senegal, dallo Sri Lanka e dalle Filippine. Migrazioni di ripiego, conseguenza delle politiche di stop attuate dai Paesi che erano mete tradizionali dei migranti (Francia, Regno Unito, Germania, Belgio, Svizzera, Olanda) e che fecero pensare a un fenomeno temporaneo, ma, come nel resto del paese, la previsione fu presto mentita. Fino alla seconda metà degli anni ’90, la Puglia e il Salento, nello specifico, grazie alla loro posizione geografica, hanno continuato a essere tra le aree del paese che hanno registrato il maggior numero di ingressi in Italia, in particolare per i flussi provenienti da est. Terre di arrivo e transito dei migranti diretti verso altre zone d’Italia e d’Europa. In Albania, intanto, si consumava l’assalto alle ambasciate, dopo la caduta dell’ultima cortina di ferro. L’immigrazione albanese (1990-1991) verso la Puglia è quella che più di altre modifica il panorama migratorio locale, ma condiziona anche le scelte politiche nazionali. Nel 1992, con la crisi del Corno d’Africa, arriva la comunità somala ed eritrea. Nel 1998, iniziano a stabilizzarsi sul territorio di alcune comunità (albanese e marocchina, seguite da quella srilankese, senegalese e filippina) e comincia una significativa espansione della comunità cinese, che da allora in poi sarà in costante espansione. Nel 1999, con la guerra in Kosovo, riprendono gli sbarchi sulle coste salentine dei profughi in fuga dai bombardamenti: complessivamente transitano in Puglia più di 150 mila profughi. In generale, è proprio dalla fine degli anni Novanta che i flussi migratori nel Salento iniziano a stabilizzarsi: aumentano le coppie miste, i figli dei migranti iscritti nelle scuole, le richieste di cittadinanza, gli acquisti di abitazioni. A queste presenze “storiche”, divenute ormai stabili sul territorio, hanno continuato ad aggiungersi ogni anno nuovi arrivati. Nel 2002 si assiste a una netta prevalenza delle comunità dell’Europa dell’Est, incentivata dalla sanatoria che interessa principalmente cittadine romene, polacche, bulgare, ucraine, russe e moldave impegnate in attività di cura. Dal 2002 a oggi, sono continuati gli arrivi via mare, non solo attraverso la rotta albanese (Valona - Otranto), che anzi è diventata sempre meno seguita, ma anche attraverso la Grecia. Arriva via mare un considerevole numero di richiedenti asilo provenienti, per lo più, dal Medio Oriente (Afghanistan, Iran, Siria, Turchia, Iraq), a cui si sono aggiunti, dal 2011, a seguito delle Primavere arabe, prima, e della cosiddetta Emergenza Nord Africa, dopo, richiedenti asilo provenienti dal continente africano (Tunisia, Libia, Eritrea, Sudan, e negli ultimi anni sempre più dalla Nigeria).
Presenze storiche e nuovi arrivi cambiano il volto della migrazione sul territorio. Nuove sfide si pongono ai sistemi di welfare locali, spesso incapaci nel dare risposte efficaci, perché schiacciati sull’anacronistica retorica dell’emergenza. La migrazione, in Italia e sul territorio locale, è un fenomeno strutturale: sono oltre 130 le diverse provenienze geografiche presenti in provincia di Lecce. Abbiamo, come si dice, il mondo in casa. Sono oltre 127 mila i cittadini stranieri presenti nella sola Puglia, e di questi oltre 26 mila, il 15% hanno meno di venti anni. Ragazze e ragazzi nati e cresciuti qui, italiani di fatto, ma non riconosciuti come tali. Le vicende legate alla mancata approvazione della legge sullo Ius Soli danno la tara del ritardo politico e culturale delle nostre istituzioni. Il Parlamento italiano, in cinque anni di legislatura, non è stato in grado di approvare una legge che riconoscesse un semplice dato di fatto: le nostre società sono oramai società policulturali e pongono istanze di riconoscimento non più eludibili.  È questa la sfida delle migrazioni, che sono sempre state un importante banco di prova per la vita democratica di un paese. Ben vengano quindi iniziative legate al dialogo interculturale e interreligioso, capaci di tracciare percorsi di cittadinanza e inclusione che superino la finta emergenza sulla quale in Italia si tenta di schiacciare il discorso sulle migrazioni, tra i fenomeni più complessi, ma anche più ricchi di possibilità, della nostra contemporaneità.