Articolo pubblicato in Sociologia del Lavoro, n.140, 2015
Il lavoro bracciantile in provincia di Lecce tra vuoto istituzionale e caporalato
L’agro centro-meridionale della provincia di Lecce
rappresenta ormai da oltre vent’anni un tassello importante ed esemplificativo
delle dinamiche politiche, sociali ed economiche che attraversano e danno forma
al lavoro agricolo stagionale nella gran parte dei paesi dell’aria
euro-mediterranea. Sin dagli inizi degli anni Novanta, a
Nardò, nel periodo che va da giugno a settembre, centinaia d’immigrati,
provenienti per lo più dal continente africano, prendono parte all’attività di
raccolta di prodotti agricoli, principalmente angurie e pomodori, in quella che
è divenuta una consuetudine conosciuta, in molti casi deprecata a causa delle
condizioni di vita in cui sono costretti i lavoratori, ma, a quel che sembra,
immutabile. A mutare, lungo il corso del tempo, è solo la composizione sociale
dei braccianti avvicendatisi in conseguenza al modificarsi di diversi fattori:
quelli più immediatamente produttivi (il cambio della tipologia dei prodotti
agricoli coltivati e la modificazione degli ettari coltura destinati alla
coltivazione), quelli economici più generali (la crisi degli ultimi anni, i
licenziamenti ad essa connessi, le politiche pubbliche ispirate ai dettami
dell’austerity e la stagnazione
economica) e, ancora, quelli legati ai cambiamenti intervenuti sul versante
delle dinamiche migratorie, soprattutto dal 2011, quando – a seguito delle
cosiddette primavere arabe e dell’intervento armato in Libia – è mutato il
panorama degli arrivi e delle presenze di cittadini stranieri sul territorio.
Da quell’anno, infatti, si è registrato un aumento costante di cittadini
richiedenti asilo e/o protezione umanitaria che, anche in conseguenza delle
politiche e delle modalità di accoglienza loro riservate (Cfr. Ciniero 2014), sono
divenuti un bacino di reclutamento di manodopera.