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lunedì 25 agosto 2025

Jerry Essan Maslo. Una storia italiana

 


di Antonio Ciniero

La notte tra il 24 e il 25 agosto veniva assassinato Jerry Essan Maslo. 

Alla vicenda di Masslo, le teche rai hanno dedicato uno spazio che raccoglie interviste e spezzoni di programmi dell’epoca che parlarono della vicenda. Il titolo è infelice “La guerra di Masslo” (Masslo non ha fatto una guerra, semmai la guerra è stata fatta a Masslo e ai tanti che hanno provato a costruire un futuro lontano dal posto in cui sono nati da leggi ingiuste e liberticide), ma i materiali sono interessanti. 

Se avrete la pazienza di vederli e ascoltarli vi sembrerà di vivere un déjà vu, oltre che la storia Masslo, dell’Italia di quell’epoca, vedrete molto di quello che ancora oggi accade. 


Qui il link al sito della rai

domenica 31 marzo 2024

Le politiche dell’esclusione. Centri di accoglienza, ghetti agricoli e campi rom in Italia

 E' appena uscito per Meltemi il ultimo libro: Le politiche dell’esclusione. Centri di accoglienza, ghetti agricoli e campi rom in Italia. 



Qual è la genesi dei centri di accoglienza per i migranti? Come sono nati i ghetti agricoli in Italia? Cosa hanno in comune con i campi rom? Come si vive in questi luoghi? Che effetti hanno sulle traiettorie di vita delle persone che li abitano e, più in generale, sul resto della società?
Sono le domande a cui provo a rispondere con questo libro, a partire dall’attività di ricerca degli ultimi dieci anni, in cui ho attraversato questi luoghi che sono dei luoghi di vita e di comprensione del reale, di processi concreti e simbolici che non riguardano solo chi ci vive, ma la società contemporanea nel suo complesso. 

L’obiettivo di questo lavoro è analizzare il modo in cui i centri di accoglienza (e, parallelamente, il sistema di accoglienza), i ghetti agricoli e i campi rom abbiano contribuito, nel solco di una legislazione sulle migrazioni profondamente contraddittoria, a determinare forme di esclusione sociale, integrazione subalterna e inclusione differenziale di segmenti di popolazione definita migrante anche dopo decenni di permanenza nel nostro paese, così come accade ai discendenti nati e cresciuti in Italia. Un altro intento è quello di provare a fare luce sulle categorie di pensiero, che, attraverso la riproduzione ininterrotta di stereotipi, pregiudizi, proiezioni, spesso ingabbiano il percorso della democrazia verso i diritti, anche laddove esista una volontà di cambiamento, proprio perché improntati, oggi come ieri, al non ascolto, al non riconoscimento dei soggetti coinvolti e delle loro istanze.


qui il link al sito della casa editrice









venerdì 25 novembre 2022

Le contraddizioni sono strutturali

 



Quando si confonde il marketing con la politica i risultati non possono che essere quelli a cui stiamo assistendo. Quando immagini, slogan, comunicati, dichiarazioni, post, video, articoli, racchiusi dentro narrazioni mediatiche parziali e di parte, prendono il sopravvento sulla realtà, sulla conoscenza reale di quella realtà, quando la costruzione della figura di un leader conta più, mediaticamente, dei percorsi collettivi e di gruppo, sui processi di riflessione, sullo stare sul campo e sull’impegno (silenzioso), sulle lotte concrete che tanti lavoratori e lavoratrici (italiani e non) portano avanti con fatica, succede che nel fango dei commenti violenti e ironici non finiscano solo certe foto patinate diffuse  e commentate sui social e sui media. Chi ci guadagna in tutto ciò? Al momento, indubbiamente, le destre al governo, che possono lavorare ad una pessima manovra senza che se ne parli, dando in pasto all’opinione pubblica l’ennesimo scandalo, che si poteva prevedere! Se solo certa sinistra fosse stata in quei luoghi dove si costruiscono, appunto, pratiche solidali. 


La campagna mediatica che sta montando ha un obiettivo ben preciso, non mira solo a colpire un singolo, mira, anche e soprattutto, a screditare ogni forma di opposizione, ogni forma di resistenza, ogni forma di critica rigorosa. 

A breve, dal caso singolo si passerà a colpire (politicamente e mediaticamente) l’insieme delle lotte e delle forme di solidarietà. È una cosa che abbiamo già visto in tempi recenti. 
Il sistema di accoglienza nel suo insieme sarà, molto probabilmente, il prossimo bersaglio. 
A ciò, da sinistra, o si risponde mettendo insieme le lotte per superare l’attuale gestione dell’accoglienza che produce strutturalmente contraddizioni o, tra qualche anno, rivivremo nuovamente questo déjà-vu.

Forse scriverò una cosa impopolare, ma è così: tutto l’attuale sistema di accoglienza italiano è pieno di contraddizioni. Non sorprende, visto che si tratta di un sistema pensato nel 2011, quando era ministro dell’Interno Maroni (Lega Nord) e consolidatosi, prima durante la cosiddetta “Emergenza nord Africa”, poi,  dal 2015, con la cosiddetta crisi dei rifugiati. È un sistema che crea contraddizioni, perché contradditorio è l’approccio europeo e italiano alle migrazioni, un approccio in continua tensione tra esclusione ed inclusione, nella gran parte dei casi subalterna.

venerdì 6 maggio 2022

II Sessione - Dal lato oscuro del confine. Mobilità e diritti alle frontiere d'Europa


 


Campi informali e pratiche di autorganizzazione

Chair: Ivan PUPOLIZIO (Università degli Studi di Bari "Aldo Moro") Interventi di: Elena FONTANARI (Università degli Studi di Milano) Antonio CINIERO (Università del Salento) Irene PEANO (Universidade de Lisboa) Giuliana SANÒ (Università degli Studi di Messina) Francesco MARCHINI (University of South Wales)


lunedì 17 agosto 2020

Alcune brevi considerazioni a caldo rispetto ai dati sulla “mancata regolarizzazione” diffusi dal ministero dell’Interno

 


i dati sono consultabili qui 


207.542 sono le domande presentate, molto al di sotto delle stime fate negli anni che parlano di un numero di irregolari compreso in una forbice che va dalle 400 mila alle 600 mila unità. Sicuramente escludere settori come quello della logistica o dell’edilizia ha inciso negativamente sul numero delle emersioni. Più in generale, però, c’è da constatare che è fallimentare (oltre che cinicamente utilitaristico e riduzionista) l’idea di legare la possibilità di emersione dalla condizione di irregolarità amministrativa al possesso di un contratto di lavoro, specie in un periodo di emergenza sanitaria come quello che stiamo vivendo.  

 

L’85% (176.848) delle domande presentate ha riguardato il settore del lavoro domestico. Si tratta, soprattutto, di collaboratori famigliari (oltre 122 mila domande) e assistenti a persone disabili e/o non autosufficienti (oltre 50 mila domande). Insomma, stando a questi dati, i pericolosi clandestini di cui parla la propaganda razzista e xenofoba, lontani dall’essere persone che vivono nel buio pronti a commettere chi sa quali delitti, sono persone che con il loro lavoro sostengono le famiglie a cui il nostro sistema di welfare, martoriato negli ultimi trent’anni da politiche liberiste, non riesce a garantire l’assistenza e il sostegno di cui avrebbero bisogno!

 

Le domande per la regolarizzazione di persone che avevano lavorato o stanno lavorando in nero nel settore agricolo, sono state meno di 30 mila (29.555), molto al di sotto delle 150 mila che le organizzazioni datoriali si aspettavano. Anche questo dato non sorprende. Il problema del settore agricolo, specie di quello stagionale, non è tanto legato al fatto che chi vi lavori non abbia un documento regolare di soggiorno, quanto al fatto che nel settore agricolo stagionale incide in maniera pesante il lavoro nero e grigio. Detto altrimenti, il problema non è tanto che i migranti non abbiano i documenti in regola per soggiornare, quanto il fatto che una quota rilevante di datori di lavoro non assume in maniera regolare i lavoratori, stranieri o italiani che siano!

 

Rispetto alla distribuzione geografica delle domande, la maggior parte ha riguardato le regioni del centro-nord Italia (Lombardia, Emilia Romagna, Lazio) e le aree metropolitane (Milano, Napoli, Roma), quelle che normalmente attraggono il maggior numero di cittadini stranieri perché offrono maggiori opportunità di lavoro. I migranti che diventano irregolari, principalmente a causa delle storture legislative, non vivono nei “ghetti”, ma nelle città dove lavorano e vivono da decenni. Spesso non sono visibili, non perché vogliano nascondersi, ma perché, per lavorare, si svegliano quando ancora le “città dormono” oppure il loro lavoro invisibile sostiene il lavoro visbile delle marche che fanno “grande il made in Italy” o ancora lavorano nelle cucine dei rinomati ristoranti stellati…  Interessante e incontro tendenza appare il dato della campagna, sparatutto quello delle provincie non metropolitane (Caserta, Salerno) che registrano un numero significativo di domande presentate.

 

Rispetto alle cittadinanze di coloro che hanno presentato domanda, per quanto riguarda il lavoro domestico, le principali aree geografiche di provenienza sono: Ucraina, Bangladesh, Pakistan, Georgia, Marocco, Perù, Albania, Cina, India, Egitto; per quanto riguarda il lavoro agricolo sono: Albania, Marocco, India, Pakistan, Bangladesh, Tunisia, Senegal, Egitto.

Anche in questo caso, salta una delle retoriche più amate dai razzisti del bel paese, quella secondo la quale i clandestini sarebbero “i palestrati appena sbarcati con tanto di smartphone …”. Come è possibile vedere, ad essere costretti all’irregolarità, sono nella maggior parte dei casi soggetti che appartengono a gruppi nazionali di antico insediamento sul territorio italiano, soggetti che diventano irregolari, magari perché, dopo decenni di presenza, si ritrovano senza lavoro…  

 

Al di là di quello che questi dati ci potranno dire quando le analisi saranno maggiormente approfondite e più raffinate, al momento, possiamo dire, senza timore di essere smentiti, che quando si pensa una regolarizzazione avendo come stella polare i profitti e non i diritti, i risultati non possono che essere fallimentari, soprattutto sul piano dei diritti e della tutela della vite delle persone.

 


Questo procedimento di regolarizzazione è stata l’ennesima occasione mancata dal nostro paese per riconoscere diritti a chi ne è privo a causa delle storture della legge e per tentare di avere una gestione meno contraddittoria dei fenomeni migratori.

martedì 16 giugno 2020

Razzismo istituzionale, ghetti e sfruttamento Una storia italiana




di Antonio Ciniero

In Italia si muore di razzismo, e purtroppo non è una novità. È successo nuovamente qualche giorno fa, a Borgo Mezzanone (Fg) dove è morto Mohammed Ben Ali.
Borgo Mezzanone, situato a nord della Puglia, è una frazione del Comune di Manfredonia che dista circa 10 km da Foggia. È una borgata rurale, la cui fondazione risale al 1934, durante la bonifica condotta dal regime fascista. Da quasi un ventennio, è una delle tappe obbligate delle traiettorie del lavoro agricolo stagionale in Puglia per i braccianti stranieri. Sul piccolo territorio di questo borgo rurale attualmente vivono tra le 1.500 e le 2.000 persone. La gran parte vive in baraccopoli più o meno contigue al grande CARA che sorge sul territorio in cui il nostro paese ha deciso di organizzare la prima (indegna) accoglienza di chi è costretto alla migrazione dalla ferocia dell’economia e dalle guerre.
A Borgo Mezzanone, la quasi totalità di chi vive nel CARA e nei “ghetti” è costretto, da un meccanismo perverso alla cui esistenza concorre la legislazione italiana in materia di migrazione (assenza di canali regolari di ingresso per chi è alla ricerca di lavoro) e quella europea in materia di asilo (impossibilità per i migranti di raggiungere il paese desiderato in virtù del principio di “primo ingresso”), a forme di sfruttamento lavorativo feroce nel settore agricolo locale che produce un quota consistente del PIL nazionale.
La provincia di Foggia, infatti, ha una grande importanza per la produzione agricola italiana, in particolare per la produzione di pomodoro: il 40% della produzione italiana del pomodoro da trasformazione è concentrato in questa zona, dove sono presenti circa 3.500 aziende che coltivano mediamente una superficie di 26 mila ettari, per una produzione di 22 milioni di quintali e un valore pari a quasi 175.000.000 di euro. L’Italia, secondo produttore al mondo di pomodoro da trasformazione, concentra il 14% della produzione mondiale. Il valore aggiunto sul PIL prodotto dal settore dell’agricoltura italiano è uno dei più alti a livello europeo, è pari al 2,2% mentre la media europea si attesta attorno a 1,5%, e produce un introito complessivo di circa 33 miliardi di euro. Un settore tutt’altro che povero quindi, come spesso viene detto strumentalmente per tentare di giustificare ipocritamente i fenomeni di sfruttamento.
Le dimensioni delle baraccopoli di Borgo Mezzanone variano notevolmente a seconda del periodo dell’anno, raggiungo il picco delle presenze proprio a partire da questo periodo fino a settembre, anche se non pochi sono coloro i quali vi restano anche durante i mesi autunnali e invernali, sia per partecipare alla raccolta di prodotti che giungo a maturazione in quei periodi (olive e alcuni ortaggi), sia perché privi di reali alternative.
La quasi totalità di questi ghetti sono abitati da braccianti uomini, le donne che vi vivono sono sostanzialmente o costrette alla prostituzione nei bordelli improvvisati nelle campagne e spesso gestiti dagli stessi che controllano l’intermediazione della domanda e offerta di lavoro (i cosiddetti caporali), in una condizione non diversa da quella della riduzione in schiavitù, o impiegate in attività di servizio, in particolare nella gestione delle cucine e degli spacci che sorgo nei ghetti. Rappresenta un’eccezione il caso il caso degli insediamenti di braccianti bulgari nella capitanata che il più delle volte vedono la presenza di un numero significativo di donne che lavorano come braccianti.
L’esistenza stessa di questi ghetti, la loro contiguità con i luoghi istituzionali in cui lo Stato italiano organizza il sistema di prima accoglienza, a Borgo Mezzanone c’è solo una malandata rete metallica che separa il CARA dal ghetto denominato “la pista”, è tra le più esplicite manifestazioni del razzismo istituzionale italiano e del non rispetto della normativa in materia di lavoro agricolo stagionale, stando alla quale le spese per l’alloggio dei lavoratori dovrebbero essere a carico delle aziende.
I ghetti sono luoghi che esistono da lungo tempo, che si riempiono anche a causa di provvedimenti istituzionali, come è avvenuto con l’emanazione del cosiddetto decreto “sicurezza” che, abolendo il pds per motivi umanitari, ha creato le condizioni di per rendere irregolari e invisibili un numero consistente di cittadini stranieri presenti sul territorio che, in buona parte, sono andati a vivere proprio all’interno dei ghetti.
Un numero che continua a crescere perché ad oggi, nonostante i proclami, il decreto “sicurezza” è ancora una legge dello stato italiano che offende la dignità e oltraggia la stessa vita umana. In molti di coloro i quali sono in questa situazione non potranno regolarizzare la propria posizione giuridica e aspirare a vivere una vita migliore perché il provvedimento da poco varato che avrebbe dovuto permettere ciò è pessimo, un provvedimento non pensato per i diritti delle persone ma per garantire i profitti.
I ghetti agricoli sono luoghi di sospensione dei diritti, diventano visibili alle istituzioni solo quando, con approccio demagogico, ne propongono lo sgombro, senza offrire quasi mai un’alternativa a chi vi abita, o quando avviene un “incidente”, quando divampa un incendio e purtroppo qualcuno perde la vita, come accaduto a Borgo Mezzanone lo scorso 12 giugno a Mohammed Ben Ali, di appena 37 anni. O come era accaduto il 4 febbraio 2020, sempre a Borgo Mezzanone, dove è morta una donna di circa 30 anni, o il 26 aprile 2019, quando è morto Samara Saho che aveva circa 26 anni, o il 6 novembre 2018, quando è morto Bakary Secka, la sua data di nascita non era conosciuta, ma aveva sicuramente meno di 30 anni, o, ancora, il 9 dicembre 2016, quando è morto Ivan Miecoganuchev che aveva 20 anni.
Le cronache dei giornali, nella quasi totalità dei casi, ci hanno detto che Mohammed Ben Ali, Samara Saho, Bakary Secka, Ivan Miecoganuchev, la donna di cui non conosciamo nemmeno il nome, sono morti a causa dei roghi e degli incendi scoppiati. È una parte della verità, l’altra parte, quella di cui non si parla, quella che non trova spazio nelle cronache dei giornali, quella che non si vuole ammettere e che un movimento forte e variegato sta finalmente portando al centro del dibattito pubblico anche nel nostro paese, è che queste persone sono morte a causa del razzismo istituzionale e sociale che attraversa e soffoca il nostro paese.
La violenza razzista in Italia ha oramai una lunga e triste storia, che quasi mai però si è disposti a riconoscere e che anzi si cerca sempre di derubricare ad altro. Una storia che, anche a causa del fatto che non viene riconosciuta ed elaborata, nel corso degli anni si ripete portando con sé una lunga scia di sangue e violazione di diritti.
Violazione di diritti, razzismo, ghetti, sfruttamento, nel nostro paese sono da sempre fortemente intrecciati, lo sono almeno da trent’anni, da quando il 25 agosto del 1989, a Villa Literno, in provincia di Caserta, Jerry Essan Masslo, fu colpito a morte con tre colpi di pistola nel capannone dove dormiva perché si rifiutò di consegnare ad una banda di balordi il denaro che aveva faticosamente messo da parte raccogliendo pomodori per tre lunghi mesi.
Masslo aveva 30 anni quando è morto, era un esule sudafricano, impegnato nella lotta contro il regime di apartheid, scappato in Italia perché nel suo paese rischiava la vita e tuttavia dal nostro paese non era stato riconosciuto come rifugiato politico perché all’epoca l’Italia aderiva alla Convenzione di Ginevra con una riserva geografica. All’assassinio di Maslo seguì la prima grande manifestazione nazionale antirazzista italiana. Il corteo che sfilò per le strade di Roma fu aperto da una delegazione di braccianti stranieri di Villa Literno. Fu quella manifestazione che portò all’approvazione della legge n. 39 del 1990.
Chi oggi scende in piazza al grido di Black Lives Matter, si riconnette con quella storia, ritesse i fili della lotta al razzismo in Italia. Chi oggi scende in piazza al grido Black Lives Matter lo fa per costruire una società più giusta ed equa. Forse è finalmente giunto il momento di iniziare anche in Italia a interrogarci su quanto il razzismo condizioni la nostra società, le nostre istituzioni, le nostre leggi e par farlo non possiamo che partire da quello che è successo in questi ultimi quarant’anni e dall’esperienza chi ha vissuto e vive sulla propria pelle l’esperienza del razzismo e della discriminazione.

sabato 13 giugno 2020

Morire di razzismo in Italia. È successo nuovamente ieri




A Borgo Mezzanone (Fg) attualmente vivono circa 1500 persone. Vivono in baraccopoli più o meno contigue ai luoghi istituzionali (CARA) in cui il nostro paese ha deciso di organizzare la prima (indegna) accoglienza di chi è costretto alla migrazione dalla ferocia dell’economia e dalle guerre.

A Borgo Mezzanone vivono molte delle persone divenute invisibili a causa dell’ignobile decreto sicurezza bis che, nonostante i proclami, è ancora una legge dello stato italiano che offende la dignità e oltraggia la stessa vita umana.

A Borgo Mezzanone, la quasi totalità di chi vive nel CARA e nei “ghetti” è costretto, da un meccanismo perverso alla cui esistenza concorre la legislazione italiana ed europea in materia di migrazione e asilo (leggasi trattato di Dublino e sistema di accoglienza italiano), a forme di sfruttamento lavorativo feroce che produce un quota consistente del nostro PIL nazionale (l’Italia è il secondo produttore al mondo di pomodoro da trasformazione e la provincia di Foggia concentrare quasi l’80% della produzione italiana di pomodoro da trasformazione).  

A Borgo Mezzanone vivono tante persone che non potranno regolarizzare la propria posizione giuridica e aspirare a vivere una vita migliore perché il provvedimento da poco varato che avrebbe dovuto permettere ciò è pessimo, un provvedimento non pensato per i diritti delle persone ma per garantire i profitti.

A Borgo Mezzanone, ieri è morto Mohammed Ben Ali, aveva 37 anni.

A Borgo Mezzanone, il 4 febbraio 2020 è morta una donna di circa 30 anni.

A Borgo Mezzanone, il 26 aprile 2019 è morto Samara Saho, aveva circa 26 anni.

A Borgo Mezzanone, il 6 novembre 2018 è morto Bakary Secka, la sua data di nascita non era conosciuta, ma aveva sicuramente meno di 30 anni.

A Borgo Mezzanone, il 9 dicembre 2016 è morto Ivan Miecoganuchev, aveva 20 anni.

Le cronache dei giornali, nella quasi totalità dei casi, ci hanno detto che Mohammed Ben Ali, Samara Saho, Bakary Secka, Ivan Miecoganuchev, la donna di cui non conosciamo nemmeno il nome, sono morti a causa dei roghi e degli incendi scoppiatiti. È una parte di verità, l’altra parte, quella di cui non si parla, quella che non trova spazio nelle cronache dei giornali, quella che non si vuole ammettere e che un movimento forte e varieggiato sta finalmente portando al centro del dibattito pubblico anche nel nostro paese, è che queste persone sono morte a causa del razzismo istituzionale e sociale che attraversa e soffoca il nostro paese.  

domenica 2 dicembre 2018

I primi effetti del decreto (in)sicurezza



di Antonio Ciniero

I primi effetti del decreto (in)sicurezza confermano, purtroppo, quanto in molti stiamo denunciando da settembre, da quando la bozza del decreto ha iniziato a circolare.
Sono già diverse decine le persone, alcuni bambini piccolissimi, costretti a stare per strada perché impossibilitate ad accedere alle strutture di seconda accoglienza (sono di ieri le prime circolari emanate da diverse Prefetture).
Se il Presidente della Repubblica firmerà la legge licenziata dalla camera, la situazione, nel medio e lungo periodo, peggiorerà sempre più. Migliaia di persone saranno costrette all'esclusione e alla marginalità sociale in nome della demagogia e del populismo.

A pagare il prezzo più alto saranno i più deboli, come al solito d'altronde, costretti a vivere sempre più ai margini, lontano dagli occhi dei più, nelle baraccopoli che affollano le periferie dalle nostre città e delle nostre campagne, come quella nella piana di Gioia Tauro dove ieri sera è morta un'altra persona, in quei "ghetti" utili a chi domanda lavoro da sfruttare per incrementare i propri profitti, quelli attarversati della violenza che, in quei luoghi, colpisce soprattutto le donne, le più invisibili tra gli invisibili.
Chi guadagnerà in tutto ciò? Solo sciacalli e criminali:
- i politicanti che proveranno a tradurre in consenso la frustrazione della gente che vede il proprio nemico in chi è affamato e non in chi affama;
- gli enti gestori e il considerevole indotto economico creato da quei luoghi di detenzione amministrativa chiamati centri per il riconoscimento e il rimpatrio in cui le persone saranno recluse fino a 180 giorni senza aver commesso alcun reato per essere poi rilasciate in condizione di irregolarità sul territorio;
- le aziende senza scrupoli che sfrutteranno il lavoro privato di diritti degli uomini e delle donne colpite dagli effetti del decreto (in)sicurezza;
- le organizzazioni criminali che gestiscono la tratta della prostituzione e il traffico di stupefacenti;
- chi potrà acquistare, o meglio riacquistare, i beni sequestrati alle organizzazioni mafiose.

Ognuno di noi deve decidere da che parte stare, sono sicuro che la maggioranza delle persone per bene, di chi crede nell'eguaglianza, nei diritti umani, non starà con le mani in mano.
Noi continueremo a resistere, disubbidiremo e ci organizzeremo per contrastare la barbarie, come già stiamo facendo, e lo faremo sempre meglio.
Touche pas à mon pote, non toccare il mio amico! Non toccate i nostri fratelli, non toccate le nostre sorelle!

venerdì 15 giugno 2018

Nessun cambiamento, come era prevedibile: si peggiora solo il peggiorabile






di Antonio Ciniero


Le iniziative messe in campo dal neo ministro degli Interni, nonostante il tentativo di presentarle come nuove, si pongono in perfetta continuità con gli interventi in materia di politica migratoria e di governance dei flussi attuati dall’Italia e dall’UE da almeno un trentennio. La vicenda della nave Aquarius mostra senza filtri il cinismo e l’aspetto inumano della gestione delle migrazioni anche al grande pubblico, ma non rappresenta un ribaltamento dell’approccio italiano alla gestione dei flussi migratori degli ultimi anni.

Dall’adozione degli accordi di Schengen in poi, la chiusura delle frontiere e la selezione degli ingressi è stata, e continua ad essere, la bussola di tutti gli interventi normativi in materia migratoria del nostro paese, come lo è delle legislazioni nazionali di quasi tutti i paesi europei e dell’Ue nel suo complesso.

Nel nostro paese però, più che altrove, i vari tentativi di ridurre il numero degli ingressi irregolari non solo sono sistematicamente falliti, ma hanno generato un paradosso (solo apparente): quanto più le leggi diventavano repressive e restrittive, quanto più erano orientate a ridurre la clandestinità, tanto più l’irregolarità di soggiorno cresceva (sia l’irregolarità di ingresso, che la cosiddetta irregolarità sopraggiunta).[1] I sedici anni di applicazione della cosiddetta legge Bossi-Fini lo hanno mostrato chiaramente. Ovviamente non è casuale, e l’irregolarità in Italia è aumentata più che altrove perché il nostro paese non ha, a differenza di altri paesi europei, dei meccanismi di regolarizzazione permanenti, ma ha avuto solo sporadiche sanatorie una tantum.
Le politiche di chiusura delle frontiere, la restrizione dei canali d’ingresso regolare, la precarizzazione della condizione giuridica degli stranieri e il mancato riconoscimento dei diritti di cittadinanza hanno fatto sì che si instaurasse una dialettica tra stato e mercato, in cui i processi che costringono i migranti all’irregolarità e all’esclusione consegnano agli agenti economici un utile strumento di svalorizzazione della forza lavoro: una situazione utilissima a chi domanda lavoro, perché mette a disposizione una manodopera priva di diritti da sottoremunerare ed utilizzare per incrementare i profitti.


martedì 18 luglio 2017

Processo Sabr, in Italia esiste la schiavitù!

(Giovani lavoratori sulla strada verso il "ghetto" - ph. I. Papa)


di Antonio Ciniero


già pubblicato in sbilanciamoci.info


In Italia ci sono uomini ridotti in schiavitù. Parte del lavoro agricolo stagionale del nostro paese, quello che fa crescere il nostro PIL, che permette l’esportazione e il consumo dei prodotti del made in Italy sulle tavole nostre e su quelle di mezza Europa, si basa anche su un lavoro “schiavile”. A sostenerlo non è uno dei tanti allarmi lanciati da qualche inchiesta giornalistica, non è la presa di posizione di una ONG o sigla sindacale. La riduzione in schiavitù è stata contesta come reato a 11 imputati dalla sentenza pronunciata il 13 luglio scorso dai giudici della Corte di Assise del Tribunale di Lecce nel processo nato dall’inchiesta denominata Sabr, dal nome di uno dei caporali che organizzava buona parte del lavoro agricolo stagionale nel territorio di Nardò, in provincia di Lecce.

sabato 20 maggio 2017

Un difficile anniversario. Breve cronaca di un processo di regressione dei diritti in Italia

Due uomini in cerca di lavoro durante la Grande Depressione americana del 1929

di  Antonio Ciniero e Ilaria Papa


Il 20 maggio 1970 veniva promulgato lo Statuto dei Lavoratori, uno dei più avanzati testi giuridici di tutela dei diritti dei lavoratori. 

Nel 1997 viene promulgata la legge n. 196, più conosciuta come pacchetto Treu, dal nome dell’allora ministro del lavoro e oggi presidente del CNEL, l’ente che lo stesso Treu voleva abolirle fino allo scorso 4 dicembre.

Nel 2003 viene approvata la legge n. 30 (da alcuni chiamata impropriamente legge Biagi). 

Nel 2014 viene  approvata la legge n. 183 (il cosiddetto Jobs Act).

mercoledì 8 febbraio 2017

È caccia all’uomo!



È inquietante leggere questa circolare del Ministero degli Interni datata 26 gennaio. È stata diramata alle questure di Roma, Brindisi, Torino e Caltanissetta con l’ordine di riempire i Cie delle città in questione di “ cittadini sedicenti nigeriani” (questa la dizione della circolare) entro il 18 febbraio. Questa improvvisa stretta - tanto impellente per il mistero dell’interno da chiedere anche di rilasciare anticipatamente altri reclusi se necessario per far posto ai nigeriani – è diretta conseguenza dell’accordo di collaborazione nelle identificazioni con l’ambasciata della Nigeria.  

Questa vergognosa caccia all’uomo, non è che l’ultima delle continue violazioni ai diritti umani che in Italia e in Europa si stanno perpetuando negli ultimi anni ai danni dei migranti. Gli stati stanno cercando in ogni modo di bloccare gli ingressi sul proprio territorio attivando a questo scopo una serie di dispositivi che vanno dagli accordi sottoscritti con il governo di Erdogan all’istituzione degli hotspot, dai muri con il filo spinato alla proliferazione dei campi profughi che nascono nelle zone di confine, da Calais a Idomeni.

venerdì 6 gennaio 2017

CIE: né qui né altrove







Marco Minniti ha dichiarato che i Cie che dovranno ospitare le persone irregolari da respingere “non avranno nulla a che fare con quelli del passato. Punto. Non c'entrano nulla perché hanno un'altra finalità, non c'entrano con l'accoglienza ma con coloro che devono essere espulsi.”

I Cie, così come prima i CPT (Centri di Permanenza Temporanea, introdotti dalla legge n. 40 del 1998, la cosiddetta Turco-Napolitano) non hanno mai avuto nulla a che fare con l’accoglienza! Lo scopo, dichiarato, è sempre stato quello dell’identificazione e dell’espulsione. Uno scopo rispetto al quale - come abbondantemente attestato da studi, ricerche, commissioni di inchiesta - si sono rivelati del tutto inefficaci.

Questo un ministro dell’Interno ha il dovere di saperlo! Se non lo sa, è palesemente inadeguato a ricoprire il ruolo che ricopre; se lo sa e finge di non saperlo prende in giro chi lo ascolta facendo squallidi gioghi di potere sulla pelle di chi è più vulnerabile!

I Cie sono luoghi di sospensione dei diritti, si conosce perfettamente tutto quello che avviene al loro interno, si conoscono le dinamiche relazionali che si innescano tra operatori e “internati”, si conoscono le contraddizioni giuridiche a cui danno vita, la funzionalità produttrice di irregolarità amministrativa e la correlazione che questa irregolarità prodotta per legge ha tanto con le modalità di costruzione del consenso, quanto con le modalità di inserimento lavorativo e relativo sfruttamento in contesti economici depressi.

I Cie, semplicemente, vanno aboliti. Rappresentano un vulnus nel sistema della nostra cultura giuridica. Sono incompatibili con un paese democratico. Sono luoghi che non rispettano, prima ancora che i diritti, l’umanità.


#MaiPiùCie #CieNèquiNèAltrove

venerdì 2 dicembre 2016

Accoglienza o esclusione? Alcune considerazioni sul sistema di accoglienza italiano #overthefortress


di Antonio Ciniero

Più o meno a bassa voce, ma con sempre maggiore insistenza, da più parti si incomincia a dire che il sistema di accoglienza italiano ed europeo non funziona. Non funziona, se l’obiettivo è quello di tutelare la vita delle persone che partono e garantire loro una reale accoglienza, degna di questo nome, e un reale inserimento sociale. Rispetto a ciò, il sistema è del tutto fallimentare. Ed è un fallimento drammatico: oltre 4 mila morti nel Mediterraneo (stima per difetto) solo in quest’anno che volge al termine, a cui si aggiungono le morti dei migranti in transito in altre situazioni: nel deserto, un fatto di cui stenta ad arrivare persino l’eco in occidente, ma anche le tante morti e sparizioni che avvengono a causa della chiusura dei confini interni della stessa Europa. In diverse parti d’Europa migliaia di uomini, donne e bambini sostano in campi e centri, in una lunga difficilissima attesa. Per quanto riguarda l’Italia, migliaia di persone, nonostante siano destinatarie di forme di accoglienza (prima o seconda), sono costrette a forme disumane di sfruttamento nei diversi settori economici del paese, in particolare in quello agricolo, e crescono sempre più anche le vittime di sfruttamento sessuale.

lunedì 5 settembre 2016

SFRUTTATI, ESCLUSI E COMPLETAMENTE ABBANDONATI DALLE ISTITUZIONI: BRACCIANTI ROM A BORGO MEZZANONE

Antonio Ciniero


Ph. Ilaria Papa 




Siamo un territorio di frontiera, non ci manca nulla qui: Cara, “Pista”, ghetti, disagio sociale…siamo la periferia della periferia…

Sono le parole di una volontaria della Caritas di Borgo Mezzanone, frazione di Manfredonia, appena 10 km da Foggia. Oggi è una delle tappe obbligate delle traiettorie del lavoro agricolo in Puglia. 
Sul piccolo territorio di questo borgo rurale è localizzato un CARA[1], con una capienza di oltre 600 posti, punto di arrivo dei bus turistici che portano, scortati dalle auto dei carabinieri, centinaia di giovani migranti che - in moltissimi casi - trovano lavoro nei campi. Alle spalle dal CARA, sulla pista, lunga circa 3 km, di un ex aeroporto militare, una cinquantina di container, più svariate tende e baracche, in cui trovano rifugio, in questo periodo di raccolta, non meno di 800/900 persone provenienti da diverse zone del continente africano: Sudan, Guinea, Mali, Nigeria, Somalia, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Togo e Senegal, le provenienze maggioritarie[2]. Ci sono poi diversi casolari, più o meno diroccati, riparati con materiali di recupero, e altri “micro-ghetti” che offrono precario riparo ad altri lavoratori delle campagne della Capitanata e del Nord barese.

Luoghi che costringono la vita di chi li abita ad una marginalità estrema. Tra questi, c’è una baraccopoli che più di tutti gli altri sembra catapultare chi vi giunge molto lontano, in altre epoche o in altre latitudini. Questo posto invisibile e tuttavia ben evidente dalla strada statale, sorge su un terreno privato con il perimetro delimitato da pali, un traliccio dell’alta tensione e da alcune pale eoliche. Non è contiguo ai vicini luoghi dell’esclusione: tutto intorno, solo distese di terra a perdita d’occhio. A un lato della baraccopoli, un grande fossato - in passato utilizzato come vascone per l’irrigazione - è stato trasformato in una discarica a cielo aperto dove sono conferiti i rifiuti che nessun servizio d’igiene pubblica smaltisce.

lunedì 22 agosto 2016

Migranti economici e migranti politici:
retoriche di una distinzione

Antonio Ciniero



La distinzione tra migrazioni economiche e migrazioni politiche, soprattutto nel discorso pubblico europeo degli ultimi anni, tende ad essere presentata, sempre più spesso, non solo come una definizione giuridica o analitica ma come una distinzione sulla base della quale differenziare i migranti "meritevoli” da quelli “non meritevoli”, quelli da accogliere dai migranti da respingere.[1] Ma siamo sicuri che negli attuali flussi migratori diretti in Europa sia possibile distinguere nettamente le migrazioni politiche da quelle economiche? Siamo sicuri che le vite dei soggetti siano incasellabili rigidamente nei percorsi che le normative nazionali e internazionali (e non solo le normative) pensano come radicalmente alternativi ed esclusivi? E, in seconda battuta, siamo sicuri che anche laddove un soggetto venga riconosciuto come migrante politico, quindi “meritevole” di accoglienza, il sistema pensato dai singoli stati e dall’Unione Europea sia realmente in grado di garantire accoglienza e inclusione?

Migrazioni politiche e migrazioni economiche
Nel concreto articolarsi dei processi migratori non c’è mai un solo fattore che porta ad emigrare. Esiste sempre un complesso insieme di concause difficili da districare, e così un singolo, a prescindere da quello che prevedono le normative, può ritrovarsi contemporaneamente ad essere alla ricerca del lavoro e del riconoscimento dello status di rifugiato. I processi migratori che, almeno dal 2011, stanno interessando l’Europa lo mostrano in maniera esplicita.

sabato 18 giugno 2016

Oltre il caporalato, lo sfruttamento


(Giovani lavoratori sulla strada verso il "ghetto" - ph. I. Papa)





pubblicato in sbilinfo

Antonio Ciniero

Dopo lo sciopero del 2011 dei braccianti agricoli alloggiati nel campo di Boncuri (Nardò - Le), in Italia è tornato a riaprirsi un dibattito pubblico sul tema del lavoro in agricoltura, soprattutto di quello stagionale; aspetto sicuramente positivo ma che rischia di avere tra le altre conseguenze quella di ridurre la complessità del tema trattato, selezionando e proponendo alla discussione pubblica solo alcuni aspetti del fenomeno e in questo modo favorendo la diffusione di un’immagine molto parziale della questione: è il caso di quanto sta avvenendo rispetto alla tematizzazione del rapporto intercorrente tra caporalato e sfruttamento lavorativo. Una tematizzazione che rischia di avere ricadute politiche, economiche e sociali non indifferenti.
Dal 2012 ad oggi, molte sono state le inchieste giornalistiche, le analisi socio-economiche, le pubblicazioni che hanno affrontato la questione del lavoro agricolo con un approccio che ha finito per far coincidere, per lo meno nell’immaginario pubblico, il fenomeno del caporalato con quello dello sfruttamento lavorativo in agricoltura. E questo non solo in abito giornalistico, ma anche in parte della pubblicistica specialistica dedicata al tema e, soprattutto, nel dibattito politico ed istituzionale che di fatto negli ultimi anni si è limitato a discutere di interventi - tra l’altro ancora lontani dall’essere approvati - volti al solo contrasto del caporalato.