Antonio Ciniero
Dopo
lo sciopero del 2011 dei braccianti agricoli alloggiati nel campo di Boncuri
(Nardò - Le), in Italia è tornato a riaprirsi un dibattito pubblico sul tema
del lavoro in agricoltura, soprattutto di quello stagionale; aspetto
sicuramente positivo ma che rischia di avere tra le altre conseguenze quella di
ridurre la complessità del tema trattato, selezionando e proponendo alla
discussione pubblica solo alcuni aspetti del fenomeno e in questo modo
favorendo la diffusione di un’immagine molto parziale della questione: è il
caso di quanto sta avvenendo rispetto alla tematizzazione del rapporto
intercorrente tra caporalato e sfruttamento lavorativo. Una
tematizzazione che rischia di avere ricadute politiche, economiche e sociali
non indifferenti.
Dal
2012 ad oggi, molte sono state le inchieste giornalistiche, le analisi
socio-economiche, le pubblicazioni che hanno affrontato la questione del lavoro
agricolo con un approccio che ha finito per far coincidere, per lo meno
nell’immaginario pubblico, il fenomeno del caporalato con quello dello sfruttamento
lavorativo in agricoltura. E questo non solo in abito giornalistico, ma anche
in parte della pubblicistica specialistica dedicata al tema e, soprattutto, nel
dibattito politico ed istituzionale che di fatto negli ultimi anni si è
limitato a discutere di interventi - tra l’altro ancora lontani dall’essere
approvati - volti al solo contrasto del caporalato.
Per
avere idea di quanto la questione del “caporalato” abbia fagocitato il
dibattito sullo sfruttamento nel lavoro agricolo valga come esempio, per quanto
grossolano, il seguente: cercando con Google i termini “caporalato agricoltura”
il motore di ricerca trova 3.380 risultati, con le parole "sfruttamento
agricoltura" le ricorrenze trovate sono solo 595. Stando al dibattito
pubblico, sembrerebbe che le condizioni di grave sfruttamento che si
riscontrano nell’ambito del lavoro agricolo, e in particolare dell’attività di
raccolta stagionale, siano principalmente, se non esclusivamente, conseguenza
dell’intermediazione irregolare tra domanda e offerta di lavoro.
Sono
pochi gli interventi, soprattutto tra quelli divulgati, rivolti quindi alla
maggioranza degli interessati al tema, a sottolineare che il fenomeno
dell’intermediazione irregolare tra domanda e offerta di lavoro prende forma
all’interno di una specifica configurazione economica dove il sistema di
reclutamento dei lavoratori garantito dal caporalato è semplicemente funzionale
agli interessi delle imprese perché permette di avere accesso, in breve tempo e
in maniera altamente flessibile, ad una massa di lavoratori che possono essere in
questo modo reclutati esclusivamente sulla base delle esigenze datoriali. Il
caporalato si configura quindi come un servizio che
l’economia informale fornisce alle imprese per mantenere basso il costo del
lavoro e al contempo controllare e disciplinare la forza lavoro, in particolare
i segmenti dotati di minore capacità e forza contrattuale. Non bisogna
dimenticare che la vera forza del sistema del sistema del caporalato è, in
primo luogo, l’assenza istituzionale. I cosiddetti caporali non fanno altro che
colmare vuoti istituzionali mantenendo i contatti tra azienda e lavoratori - cosa
che dovrebbe essere garantita da uffici pubblici attraverso le liste di
prenotazione - e garantendo il trasporto dai luoghi di residenza e i luoghi di
lavoro, favoriti in questo dall’abbandono e dall’isolamento spaziale e sociale determinato
dalla condizione alloggiativa dei lavoratori costretti nei vari ghetti che, in
linea teorica, non avrebbero ragione di esistere visto che le spese per
l’alloggio per i lavoratori stagionali dovrebbero essere garantite per legge
dai datori di lavoro.
Inoltre, nonostante
il caporalato tenda ad essere rappresentato come un sistema omogeneo, il modo
in cui prende forma a livello territoriale cambia,
esistono diversi modelli che vanno dal “semplice” taglieggiamento delle paghe in cambio
del servizio di trasporto e dell’ingaggio a forme di maggiore prepotenza e
violenza, fino a quelle - in realtà non così diffuse come si penserebbe -
riferibili alla riduzione in schiavitù.[1]
Il
caporalato è dunque solo uno degli elementi, importante ma solo accessorio, che
concorre al mantenimento del sistema di sfruttamento e sospensione dei diritti
che conosce l’attuale configurazione del lavoro agricolo nelle campagne
dell’Europa mediterranea.
In
tutti i paesi dell’Europa mediterranea aumentano i ghetti, le tendopoli e i campi
temporanei. Si tratta non solo di luoghi che nascono, nel disinteresse
istituzionale, ai margini delle società e dei diritti, ma anche di luoghi creati
proprio dalle stesse istituzioni, tappe obbligate delle traiettorie del lavoro
stagionale agricolo, che costringono la vita dei soggetti ad un’eterna
provvisorietà e ad un’indefinita transitorietà. Siamo di fronte ad una vera e
propria lagherizzazione di un numero
sempre crescente di cittadini ridotti ad umanità
eccedente, nuda vita costretta ad
uno stato di eccezione permanente
all’interno di spazi abietti.
Parlare
di lavoro agricolo quindi equivale a parlare di un microcosmo sociale in cui si
intersecano e si condizionano vicendevolmente dinamiche strettamente lavorative
e più generali dinamiche politiche, economiche e sociali che sono esplicitate e
amplificate perché il settore agricolo si situa al centro delle molteplici
contraddizioni che caratterizzano la contemporaneità in quanto somma ed
estremizza molte delle dinamiche che investono i mercati del lavoro e, più in
generale, i sistemi produttivi dei paesi capitalisticamente avanzati. Tra le
principali: quelle relative ai processi di precarizzazione della condizione
lavorativa e il conseguente depauperamento del potere contrattuale dei
lavoratori in generale e della forza lavoro migrante in particolare; quelle
relative alle ricadute sul piano economico delle politiche migratorie; quelle
relative ai processi di esclusione sociale; quelle innescate dalle filiere
produttive e dai processi distributivi dei prodotti agricoli.
Se
lo scenario qui tratteggiato ha ragion d’essere, non appare quindi casuale la
grande enfasi data al tema del caporalato rispetto ai processi di sfruttamento
in agricoltura. Non sorprende per esempio che sul piano politico il ministro
dell’agricoltura dell’attuale governo, così come pure il viceministro allo
sviluppo economico, siano impegnati in un’azione politica volta ad estendere (giustamente)
il reato di intermediazione lavorativa illegale anche alle aziende agricole che
se ne avvalgono, mentre poco, o meglio nulla, si dice e si fa, rispetto alle
condizioni politiche, istituzionali, economiche e sociali, nelle quali prendono
forma, tanto il caporalato (declinato nelle sue diverse forme), quanto, più in
generale, i processi di sfruttamento in agricoltura. Non è casuale questa
scelta per il governo che più di altri si sta contraddistinguendo per
l’introduzione di politiche che precarizzano in maniera ancora più accentuata
la condizione lavorativa, e il vergognoso jobs act non è che la punta dell’iceberg.
Oggi,
sul piano dei rapporti lavorativi, la vera partita, in agricoltura ma non solo,
va giocata sul terreno della lotta allo sfruttamento e su quello della lotta
per i diritti. Un terreno su cui in Italia, in tanti, sono decisamente in
ritardo. Insomma, fin quando la sacrosanta lotta contro il caporalato non sarà
riportata all’interno di una lotta forte, capillare e incisiva per i diritti
del lavoro, poco si otterrà. Gli interventi sul piano penale sono insufficienti
e la lotta al caporalato sarà destinata ad essere del tutto vana se non si
interviene normativamente potenziando gli strumenti di tutela dei diritti dei
lavoratori e invertendo radicalmente la tendenza in atto da quasi un trentennio
che seguita a mortificare il corpus di diritti sociali in materia di lavoro.
Questa cosa, al momento, purtroppo, sembra non essere la prima preoccupazione
di molti, sicuramente non è la prima preoccupazione dei ministri, né dei vari
sottosegretari, né tantomeno del presidente del consiglio in carica e, cosa forse
ancora più grave, non sembra essere la priorità delle organizzazioni che
dovrebbero tutelare i diritti dei lavoratori.
[1]
Per approfondimenti su questo tema si veda Pugliese (2012), a cura di, Immigrazione e Diritti violati,
consultabile on-line in http://www.coopdedalus.it/notizie/2012-06-21.pdf.
Oltre ai modelli su accennati, ci sono poi situazioni in cui il caporalato esiste anche
quando formalmente vengono rispettate tutte le leggi in materia di diritto di
lavoro (e questo la dice lunga su come si sono modificate le leggi a difesa del
lavoro in Italia). È un tipo di caporalato che conoscono bene le
braccianti che pur ricevendo nominalmente un salario proporzionato al loro
contratto di lavoro, pagano poi in contanti, con parte di quello stesso
salario, le ditte che gestiscono gli spostamenti con i pullman gran turismo
utilizzati per raggiungere i campi di lavoro. Così come conoscono un’altra
forma di caporalato perfettamente legalizzata, quello delle agenzie interinali,
le tante tipologie di lavoratori atipici che stando ai numeri divettano sempre
più tipici: lavoratori somministrati, lavoratori a chiamata e via dicendo.
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