Antonio Ciniero
La
distinzione tra migrazioni economiche e migrazioni politiche, soprattutto nel
discorso pubblico europeo degli ultimi anni, tende ad essere presentata, sempre
più spesso, non solo come una definizione giuridica o analitica ma come una
distinzione sulla base della quale differenziare i migranti "meritevoli” da
quelli “non meritevoli”, quelli da accogliere dai migranti da respingere.[1] Ma
siamo sicuri che negli attuali flussi migratori diretti in Europa sia possibile
distinguere nettamente le migrazioni politiche da quelle economiche? Siamo
sicuri che le vite dei soggetti siano incasellabili rigidamente nei percorsi
che le normative nazionali e internazionali (e non solo le normative) pensano come
radicalmente alternativi ed esclusivi? E, in seconda battuta, siamo sicuri che
anche laddove un soggetto venga riconosciuto come migrante politico, quindi
“meritevole” di accoglienza, il sistema pensato dai singoli stati e dall’Unione
Europea sia realmente in grado di garantire accoglienza e inclusione?
Migrazioni
politiche e migrazioni economiche
Nel
concreto articolarsi dei processi migratori non c’è mai un solo fattore che porta ad emigrare. Esiste sempre un
complesso insieme di concause difficili da districare, e così un singolo, a
prescindere da quello che prevedono le normative, può ritrovarsi contemporaneamente
ad essere alla ricerca del lavoro e del riconoscimento dello status di
rifugiato. I processi migratori che, almeno dal 2011, stanno interessando
l’Europa lo mostrano in maniera esplicita.
Per
quanto riguarda l’Italia, si ricorderà che durante la cosiddetta “Emergenza Nord
Africa” la maggioranza delle provenienze geografiche dei migranti che
giungevano nel nostro paese per sfuggire dalla guerra in Libia non erano
affatto nordafricane. La Libia, che ancora oggi è un punto nevralgico di molte delle
rotte per l’arrivo in Europa, fino al 2011, era stata una zona di grande
attrazione per migliaia di lavoratori provenienti da altre parti del continente
africano, costretti a lasciare il paese dopo l’intervento militare. Lavoratori,
dunque, che, da un giorno all’altro, sono divenuti profughi in fuga da una
guerra avallata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Il
viaggio di chi oggi giunge in Europa, soprattutto per chi proviene dai paesi
subsahariani, può durare anche anni, ha costi elevati e presenta difficoltà
enormi.[2] Può succedere
quindi che un soggetto partito per sfuggire ad un conflitto o a persecuzioni,
si ritrovi a dover lavorare lungo il suo percorso migratorio per mettere
insieme la cifra necessaria a raggiugere l’agognata Europa. Può succedere anche
che un soggetto, partito per ricercare lavoro, lungo il percorso migratorio diventi
oggetto di vessazioni, persecuzioni, violenze, incarcerazioni arbitrarie. È
quanto è avvenuto (e continua ad avvenire) in Libia, ed è quanto sta avvenendo
oggi in Turchia. Si può far finta di non vedere, ma questo è quello che avviene.
Gli
esempi di situazioni in cui motivazioni politiche e motivazioni economiche
delle migrazioni s’intrecciano sono moltissimi, sia a livello individuale che a
livello di gruppi, e non riguardano solo gli ultimi anni: si pensi, per esempio,
alla grande migrazione kurda verso la Repubblica Federale Tedesca negli anni
del secondo dopoguerra, attivata certamente dalle condizioni di oppressione, ma
anche della povertà della popolazione del Kurdistan. E per quanto riguarda
l’Italia si potrebbe portare l’esempio di Jerry Masslo, esule politico
sudafricano e bracciante che trovò la morte a Villa Literno, in provincia di
Caserta, il 25 agosto del 1989, quando fu assassinato con tre colpi di pistola
nel capannone dove dormiva, perché si rifiutò di consegnare ad una banda di
balordi il denaro che aveva faticosamente messo da parte raccogliendo pomodori
per tre lunghi mesi.
I
confini tra migrazioni politiche e migrazioni economiche sono molto più labili di
quanto si voglia far credere e, soprattutto, di quanto le diverse normative
presuppongano. A ciò, si aggiunga un’ulteriore lapalissiana considerazione: una
volta sul territorio di destinazione, il migrante politico avrà comunque
bisogno di lavorare e sul modo in cui un richiedente asilo, un rifugiato
politico o un titolare di altra forma di protezione, può lavorare, incideranno
diversi fattori, non solo quelli relativi alle condizioni socio-economiche del
territorio di destinazione, ma anche quelli derivanti dalla sua specifica
condizione sociale e giuridica, una condizione che in molti casi contribuisce a
deprivarlo di potere contrattuale.
Disciplinamento
e inserimento lavorativo dei migranti politici
La
verità, quella difficile da ammettere, è che oggi in Europa, di fatto,
è impossibile entrare, se non per pochissimi. Gli stati stanno cercando in ogni
modo di bloccare gli ingressi sul proprio territorio attivando, a questo scopo,
direttamente o indirettamente, una serie di dispositivi che vanno dagli accordi
sottoscritti con il governo di Erdogan all’istituzione degli hotspot, dai muri con il filo spinato
alla proliferazione dei campi profughi che nascono nelle zone di confine, da
Calais a Idomeni. Processi di continua violazione dei diritti umani per respingere
poco più di un milione di persone, a malapena lo 0,17% della popolazione
europea: questa la percentuale dei migranti giunti in Europa nel corso dello
scorso anno. Questa la cifra che fa parlare di emergenza. È evidente che non esiste
alcuna emergenza immigrazione: esiste,
semmai, un’emergenza democratica, e riguarda i paesi europei.
L’attuale
gestione europea delle migrazioni incide anche sui pochi che riescono ad
entrare e sul loro processo di inclusione (o esclusione, visti i dati) sociale
e lavorativa. E agisce non solo negli aspetti più immediatamente visibili, come
avviene per esempio con l’applicazione del Trattato di Dublino[3] che
impedisce ai singoli di scegliere il paese in poter costruire il proprio
futuro, quello in cui poter usufruire di una rete di supporto fin dalla fase
iniziale, quella più delicata, del processo di inserimento sociale nel nuovo luogo
di vita. L’attuale approccio alle migrazioni agisce anche in maniera molto più
pervasiva, perché contribuisce alla creazione di un frame, di un apparato simbolico che condiziona fortemente le
relazioni tra cittadini migranti e società di destinazione inscrivendole in
rapporti di potere fortemente asimmetrici.
Si
prenda in considerazione il caso italiano, ma la situazione è simile in altri
paesi. Chi riesce ad entrare nel circuito che in potenza potrebbe garantirgli un
titolo di soggiorno per motivazioni politiche, o un’altra forma di protezione,
è inserito all’interno di un percorso in cui sarà oggetto di un continuo
controllo. I media ne parleranno come di una potenziale minaccia, e quindi
dovrà dimostrare di essere un “vero” profugo: dovrà essere disciplinato, dal momento dall’audizione in commissione per il
riconoscimento dello status di rifugiato al resto dei momenti in cui è visibile
pubblicamente. Dovrà sempre dimostrare di essere un soggetto docile, a maggior ragione se si tratta di un soggetto proveniente
da paesi ritenuti di fede islamica, specie in questo momento di psicosi generalizzata
derivante dalla paura di eventuali attentati terroristici. Tutto ciò, come è
facile capire, concorre alla creazione di uno sfondo, di un insieme di assunti
e luoghi comuni che contribuiscono, in maniera determinate, a inferiorizzare
coloro i quali intraprendono il percorso per il riconoscimento dello status di
migrante politico.
Non sorprende
che in una situazione di crisi economica persistente, all’interno di paesi con
economie fragili, caratterizzate da alti tassi di disoccupazione e precarietà
lavorativa, siano proprio molti richiedenti asilo, rifugiati o titolari di
altre forme di protezione, ad inserirsi in segmenti del mercato del lavoro che
presentano condizioni di sfruttamento tra le più feroci. E non è casuale che
siano in assoluto tra i lavoratori più ricattabili. Su questi processi hanno un
peso decisivo le retoriche razziste, non poche delle quali, costruite con
l’avallo, consapevole o meno, delle stesse realtà del terzo settore, in alcuni
casi anche da quelle di sinistra, impegnate a fornire servizi di accoglienza. E
così, per esempio, proliferano le iniziative in cui cooperative e associazioni
decidono di impiegare, gratis, i “propri ospiti” in mansioni socialmente utili,
quasi sempre svolte in pubblico (pulizia delle strade o simili), che mostrino
alla cittadinanza quanto siano buoni e bravi i migranti politici, quanto hanno
voglia di “integrarsi” e ringraziare dell’“ospitalità”.
Corpi esibiti che creano un’immagine rassicurante per lo sguardo
razzista di chi riconosce l’altro solo se subalterno. Insomma, su diversi
piani e a diversi livelli politici, si costruisce e si legittima un discorso
che discrimina, inferiorizza e spiana la strada allo sfruttamento lavorativo,
anche a quello più spinto.
[1]
Si tratta di una retorica che per alcuni aspetti ricorda quanto avvenuto in
Italia a proposito dei discorsi politici sulla differenza - propagandati a
destra come a sinistra - tra immigrazione regolare (da incentivare) e
immigrazione irregolare (da respingere con fermezza).
[2]
Tutte conseguenze, in primo luogo, delle politiche di chiusura che,
dall’approvazione dei trattati di Schengen in poi, caratterizzano l’approccio
europeo al tema dell’ingresso sul territorio e della libertà di movimento entro
i confini dell’UE per i cittadini non comunitari.
[3]
Sulla base di questo trattato il richiedente asilo è tenuto a presentare
domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato nel primo paese europeo
in mette piede.