Antonio Ciniero
Ph. Ilaria Papa |
Siamo un
territorio di frontiera, non ci manca nulla qui: Cara, “Pista”, ghetti, disagio
sociale…siamo la periferia della periferia…
Sono le parole di una volontaria della Caritas di
Borgo Mezzanone, frazione di Manfredonia, appena 10 km da Foggia. Oggi è una
delle tappe obbligate delle traiettorie del lavoro agricolo in Puglia.
Sul
piccolo territorio di questo borgo rurale è localizzato un CARA[1],
con una capienza di oltre 600 posti, punto di arrivo dei bus turistici che
portano, scortati dalle auto dei carabinieri, centinaia di giovani migranti
che - in moltissimi casi - trovano lavoro nei campi. Alle spalle dal CARA, sulla pista,
lunga circa 3 km, di un ex aeroporto militare, una cinquantina di container,
più svariate tende e baracche, in cui trovano rifugio, in questo periodo di
raccolta, non meno di 800/900 persone provenienti da diverse zone del
continente africano: Sudan, Guinea, Mali, Nigeria, Somalia, Costa d’Avorio, Burkina
Faso, Togo e Senegal, le provenienze maggioritarie[2].
Ci sono poi diversi casolari, più o meno diroccati, riparati con materiali di
recupero, e altri “micro-ghetti” che offrono precario riparo ad altri lavoratori
delle campagne della Capitanata e del Nord barese.
Luoghi che costringono la vita di chi li abita ad
una marginalità estrema. Tra questi, c’è una baraccopoli che più di tutti gli altri
sembra catapultare chi vi giunge molto lontano, in altre epoche o in altre
latitudini. Questo posto invisibile e tuttavia ben evidente dalla strada
statale, sorge su un terreno privato con il perimetro delimitato da pali, un
traliccio dell’alta tensione e da alcune pale eoliche. Non è contiguo ai vicini
luoghi dell’esclusione: tutto intorno,
solo distese di terra a perdita d’occhio. A un lato della baraccopoli, un
grande fossato - in passato utilizzato come vascone per l’irrigazione - è stato
trasformato in una discarica a cielo aperto dove sono conferiti i rifiuti che
nessun servizio d’igiene pubblica smaltisce.
Ci sono almeno un centinaio di baracche costruite
con materiale di risulta: vecchie porte, tavolacci di compensato e lamiere sono
divenuti pareti e tetti di precarie abitazioni ricoperte da teli di plastica trasparenti,
gli stessi che si usano per ricoprire le intelaiature delle serre che
proteggono i prodotti agricoli dalle intemperie.
È una baraccopoli completamente abbandonata a sé
stessa. Qui le istituzioni non si fanno vedere. Non c’è acqua, e per prenderla
bisogna percorre 5 chilometri e arrivare, in alcuni casi anche a piedi, fino
alla fontana che si trova davanti alla parrocchia di Borgo Mezzanone per
riempire le taniche.
Gli abitanti del campo sono circa 800: tutti cittadini
bulgari, nella quasi totalità provenienti dalla cittadina di Sliven[3].
Si tratta di interi nuclei famigliari, uomini e donne rom, che lavorano come
braccianti nella raccolta del pomodoro, dell’uva, e poi, con l’avanzare delle
stagioni, delle cime di rapa, dei finocchi, ecc. È il loro lavoro, assieme a
quello degli altri braccianti della Capitanata, sottoposto a livelli di
sfruttamento altissimo, che permette di consumare sulle tavole italiane e di
mezza Europa i rinomati prodotti agricoli made
in Puglia.
A differenza
degli altri ghetti rurali, in cui massiccia è la presenza di adulti, per la
maggioranza uomini, la metà di chi ci vive è costituita da bambini, moltissimi di pochi anni.
Il numero degli abitanti del ghetto bulgaro varia in base ai periodi dell’anno: cresce in estate
e diminuisce via via che ci si inoltra nei mesi invernali. Dalla fine di
settembre, moltissimi, con i bambini, fanno ritorno in Bulgaria, e gli abitanti
si dimezzano, per divenire meno di cento tra dicembre e aprile. In questo
periodo, restano solo i pochi che continuano a lavorare in campagna anche in
inverno.
“In Bulgaria
abbiamo le case, ma non abbiamo il lavoro. Per questo siamo qui”, mi
ripetono. Con i risparmi faticosamente messi da parte grazie al lavoro in
Italia, queste famiglie riescono a vivere in Bulgaria durante i mesi invernali,
dove mandano i figli a scuola, fino a maggio o giugno, quando si riparte per
l’Italia per lavorare nuovamente nella raccolta stagionale. Un ciclo di
migrazioni che si ripete oramai da molti anni, per alcuni anche da più di 10
anni.
IL RACCONTO DI IVAN
Iván[4], un uomo di 53 anni, mi racconta la sua storia,
mentre insieme alla sua famiglia, pranziamo seduti su taniche e cassette di
plastica davanti alla sua baracca. È in Italia da nove anni, ma solo da quest’anno
vive nella baraccopoli. Fino all’anno scorso aveva trovato riparo con la sua
famiglia in un casolare nelle campagne di Borgo Mezzanone dal quale è stato poi
sfrattato. Anche la sua è una migrazione
stagionale, anche lui ha la casa in Bulgaria, ma non ha più un lavoro: in
precedenza lavorava in un mattatoio, come suo padre prima di lui, da quando
aveva 22 anni e aveva concluso gli studi. Perso il lavoro, per far fronte alle
esigenze della sua numerosa famiglia, ha deciso di tentare la via
dell’emigrazione, come altri prima di lui hanno fatto nella sua città.
La moglie di Iván, María,
sua coetanea, è con lui nella baraccopoli e nel lavoro nei campi della Capitanata.
Iván e sua moglie hanno sei figli, tre maschi e tre femmine. Cinque dei loro
figli sono al momento in Bulgaria, si prendono cura della casa e dell’orto che
circonda la loro casa a Sliven. Riescono ad andare avanti solo grazie alle
rimesse che Iván e sua moglie inviano periodicamente. Dei sei figli, in Italia,
nella baraccopoli, al momento, c’è solo la figlia più piccola Penka, di 23
anni, con suo marito Nikolay, di 24 anni, e la loro unica figlia, Elena, di
appena un anno. Penka non può lavorare nei campi, perché deve prendersi cura
della piccola Elena, ma non voleva nemmeno stare lontana da Nikolay. Sono sposati
da appena un anno, e questa è la prima volta che segue Nikolay che invece
lavora nei campi insieme ai suoi suoceri già da 4 anni. Da giugno alla fine di
settembre, il tempo necessario per mettere da parte il denaro con il quale provvedere
alle esigenze della famiglia nei mesi invernali.
IL SALARIO
Mettere i soldi da parte per l’inverno non è cosa
facile. Il lavoro è duro e il salario è misero. La paga, racconta Iván, varia rispetto al tipo di raccolta. Si
riesce a guadagnare dai 20 ai 30 euro al giorno, ed il pagamento è sempre a
cottimo. Il periodo dei pomodori, quest’anno, è andato peggio degli altri anni:
c’è meno pomodoro e ci sono più persone, di conseguenza i salari sono scesi e
come paga riceve solo 6 centesimi per ogni cassa da 15 kg, riempita con
pomodori San Marzano, gli stessi che Iván e María, ci offrono durante il
pranzo.
Il calcolo è presto
fatto: quest’anno, per guadagnare almeno 20 euro - con le tariffe che mi
riferisce Iván e mi confermano altri 3 braccianti - bisogna riempiere al giorno
oltre 330 casse, quasi 5 tonnellate di pomodori raccolti durante le 10 ore di
lavoro. Una media di 33 casse riempite in un’ora, meno di due minuti a cassa.
Un ritmo estenuante, inumano da mantenere, soprattutto sotto il sole
dell’estate pugliese.
E loro, dice Iván, sono anche fortunati perché, innanzitutto, non lavorano anche il pomeriggio, come fanno gli africani, e, soprattutto,
a lavoro, lui, sua moglie e il genero, ci vanno con la macchina e non pagano un
intermediario, un caporale. Anche per quanto riguarda i proprietari delle
imprese per le quali lavora in nero, si tratta di conoscenze dovute ai nove
anni di permanenza stagionale in Italia, e anche in questo caso, non deve
rivolgersi a nessun intermediario. Chi invece non ha una macchina o, pur avendo
una macchina, non conosce i proprietari dei campi, i padroni come li chiama Iván, deve sottrarre dalla misera paga giornaliera anche i costi del servizio di trasporto sul campo, quindi non
meno di 5 euro, e la percentuale che il caporale tiene per sé sul compenso per
il prodotto raccolto.
Non c’è
alternativa a questo, dice Iván, questo
è il lavoro e questo si deve fare…vorrei
fare altro, ma non c’è lavoro in Italia…c’è la crisi, ripete, come mi hanno
ripetuto, in sostanza, prima di lui quasi tutti gli altri braccianti con cui ho
parlato negli ultimi 5 anni.
Salutandolo gli chiedo
per quanto tempo abbia ancora intenzione di venire a lavorare in Italia. Mi risponde
che lui continuerà a farlo ancora per molto tempo, almeno finché la Bulgaria
non adotterà l’euro, perché, se dovesse farlo, secondo Iván, i 1500/1600 euro
che con tanta difficoltà e sofferenza riesce a guadagnare per i mesi invernali
non sarebbero più sufficienti per vivere in Bulgaria.
(Antonio Ciniero)
[1] Centro di accoglienza in cui
vivono i richiedenti asilo in attesa dell'esito della procedura di richiesta
della protezione internazionale.
[2] Molti di coloro che vivono sulla pista provengono dal CARA e ci sono
finiti dopo il diniego della protezione internazionale. Altri sono lì
nonostante abbiano ottenuto il riconoscimento di una qualche forma di
protezione. Alcuni sono passati anche dai percorsi di seconda accoglienza,
altri ancora ci vivono perché è l’unico luogo dove possono stare per lavorare
come braccianti nella raccolta stagionale. Per approfondire questi aspetti, è
utile la lettura del report Fuori Campo, curato
da Medici Senza Frontiere.
[3] Sliven dista da Sofia circa 350
km e conta 100.000 abitanti. Oltre il 30% degli abitanti di questa città sono
rom e, tra questi, sono moltissimi ad avere avuto esperienze migratorie
stagionali in Europa occidentale. Per approfondimenti su questo aspetto, si
veda il contributo di Campagne in Lotta, Foggia-Slivenandata e ritorno: Appunti per un’inchiesta militante sulle ‘altre braccia’.
[4] Per tutelare la privacy di chi ha
raccontato la sua esperienza personale, si è deciso di utilizzare uno
pseudonimo.
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