di Antonio Ciniero
Quella che segue è la Postfazione alla ricerca Non dire rom curata da Roberto Mazzoli
per l’Associazione 21 Luglio. Per
scaricare la ricerca completa cliccare qui.
Dieci anni fa, nella stazione
romana di Tor di Quinto, veniva brutalmente uccisa la signora Giovanna
Reggiani. Questo doloroso avvenimento di cronaca ha segnato il momento in cui,
in Italia, la cosiddetta “questione rom” è tornata a essere declinata con
grande eco nel discorso pubblico, tanto sul piano della comunicazione
mediatica, quanto su quello del dibattito politico. L’edizione on line del Corriere della Sera – solo per citare un
esempio tra tanti – per raccontare l’episodio sceglieva il titolo Giovanna Reggiani è morta, preceduto dall’occhiello Orrore a Roma: saranno abbattute le
baracche abusive a Tor di Quinto.
Ad accompagnare le foto delle operazioni di polizia, la didascalia Seviziata
da rom, controlli nel campo nomadi. [1]
Il fatto che a commettere l’omicidio fosse un ventiquattrenne con cittadinanza
romena, residente da qualche mese all’interno di un campo informale che sorgeva
nei pressi della stazione di Tor di Quinto, amplificò con forza il clamore
suscitato dalla notizia, facendo sì che l’episodio travalicasse rapidamente gli
steccati della cronaca nera, assumendo, sin da subito, una forte connotazione
politica e, a tratti, anche strumentalmente ideologica, che animò il dibattito
nell’intero paese.
Il giorno seguente l’omicidio, il sindaco di Roma,
Walter Veltroni, da poco divenuto il primo segretario del Partito Democratico,
lanciava un allarme sicurezza che avrebbe condizionato non solo l’agenda
politica del governo della città di Roma, ma anche quella del governo
nazionale, allora presieduto da Romano Prodi, che, proprio sulla spinta di quel fatto
di cronaca, convocò il Consiglio dei Ministri che introdusse limitazioni
all’ingresso e al soggiorno in Italia per i cittadini romeni, da pochi mesi
divenuti cittadini comunitari.[2]
Qualche mese dopo, nel maggio del 2008, il nuovo governo con maggioranza di
centro-destra, guidato da Silvio Berlusconi, emanava un decreto con il quale si
sanciva in Italia l’esistenza di un’“emergenza nomadi”. [3]
Quel decreto diede poteri speciali ai prefetti di Roma, Napoli e Milano per
affrontare la presunta emergenza e diede loro, tra l’altro, la possibilità di
gestire ingenti somme di denaro pubblico in deroga alle procedure ordinarie
previste dalle leggi.[4]
Si tratta di un esempio, forse il più eclatante, in cui racconto mediatico e
decisioni pubbliche si sono condizionati vicendevolmente in modo perverso.