Photo credit: Ilaria Papa |
di Antonio Ciniero e Ilaria
Papa
L’Italia
è attraversata dalla violenza razzista e sessista. Ciò che è successo a
Macerata non è, purtroppo soltanto un caso isolato, il gesto estremo di una
personalità definita borderline, esasperata
magari da altri problemi e fatti, come velocemente è stato dichiarato su diversi
media, anche stranieri, e da alcuni esponenti politici. C’è una vasta, complessa
trama, in alcuni punti più lenta e sottile, quasi invisibile, impalpabile, in
altri più immediatamente percepibile, che attraversa l’Europa e, in
particolare, l’Italia. Episodi come quello di Macerata, che evocano con forza fantasmi
ed incubi da un passato che pensavamo non sarebbe potuto tornare, rappresentano
solo alcuni nodi più evidenti di questa rete di fatti e idee. Era un
simpatizzante di Forza Nuova anche l’uomo che a gennaio ha ucciso la moglie e
sparato sulla folla dal balcone di casa nel Casertano.
Sia
chiaro, la violenza sessista è un fatto trasversale a status, classi,
definizioni politiche e nazionalità. Tuttavia, qualunque cosa ne dicano gli
accusatori soltanto per “profilo etnico” (nel caso degli autoctoni, si
tratterebbe sempre di cose da poco o sarebbero le donne ad essersela andata a
cercare, come qualche politico ha dichiarato dopo i fatti di Firenze che hanno
visto due carabinieri indagati per stupro), alcune connessioni, alcuni legami, trasversali
a partiti e idee politiche, classi, età, tali da creare influenze, alimentare
problematiche e comportamenti, ci sono e sono rintracciabili in alcune condotte,
che, a voler guardare, risultano chiare. Queste condotte, se ci sta a cuore il
futuro della nostra democrazia, il valore della vita di tante persone, dei
nostri figli e di noi stessi, di quello che siamo e abbiamo costruito, dovrebbero
essere smascherate, rivelate, portate alla luce e denunciate, combattute, il
più possibile.
Ci
sono, certo, fatti di minore importanza, che percorrono nella loro banalità il
quotidiano, e fatti di una gravità estrema: che sia il venditore sotto casa,
che si lamenta con i clienti e accusa gli stranieri di rovinargli gli affari,
che si tratti di “leoni da tastiera” che soffiano sul fuoco dei social network
o personaggi che decidono di agire in prima persona, come è successo a
Macerata, in molti, in troppi, stanno ormai alimentando da tempo questa catena
di insofferenza e irrazionalità. Di persone improvvisamente in-sofferenti e “irrazionali”,
che propongono una giustizia da realizzarsi senza ragionare troppo e in modi anche
tragici, non sono piene solo le pagine di storia o romanzi ottocenteschi come i
Promessi Sposi: di queste idee si sta riempiendo il Paese.
Recentemente
i “Sentinelli di Milano”, gruppo che si definisce laico e antifascista, hanno denunciato
alle autorità un orrendo fotomontaggio, apparso sabato scorso su Facebook, che
mostrava Laura Boldrini decapitata, con una scritta: “Questa è la fine che deve
fare così per apprezzare le usanze dei suoi amici”. Una frase che inneggia alla
peggiore retorica maschilista, sessista, colonialista, razzista, terrorista. Da
tempo la presidente della Camera è oggetto di una campagna di odio, che nessuno
ha voluto disinnescare: da dove viene questo, come lo definiva qualche tempo fa
Annamaria Rivera, desiderio di punire e ridimensionare le donne, specie quando
cercano, trovano una loro voce? Aggiungeremmo: da dove viene e chi alimenta questo
desiderio di punire i migranti (e persino dei ragazzi italiani, non
riconosciuti come tali, soltanto perché figli di cittadini di origine straniera)?
Per
essere efficaci, bisognerebbe guardare al disegno che questo fitta trama sta
componendo. I mandanti politici, per usare una frase storica che sta tornando
attuale, sono conosciuti da tempo, ma sono tollerati, anzi, da alcune parti
ritenuti – e non da oggi - fisiologici al sistema, come certo razzismo, come
certe pratiche discriminatorie o sessiste. Bisognerebbe capire anche perché all’indomani
dei fatti che travolsero Bossi e la Lega Nord, un personaggio come Salvini fosse
pescato quasi a caso dal nulla e poi continuamente proposto dai media nazionali
come punto di riferimento e interlocutore di uno spazio ormai rimasto vuoto,
permettendogli di arrivare – alla pari e più di tanti leader di partiti di
governo - nelle case di tutti gli italiani e di presentarsi come un homo novus che avrebbe portato
giustizia per le classi dimenticate, stravolgendo il linguaggio di un
paese e spostando l’asse del politically
correct a suo vantaggio. Il cambiamento di rotta rispetto alla Lega Nord è
apparso molto evidente a dicembre 2017, quando perfino Bossi, anche se solo
strumentalmente, ha criticato sui giornali le posizioni sul neofascismo del
nuovo leader, che, dopo aver omesso la parola e la questione “nord”, si spinge
a cercare voti e candidature persino nel Mezzogiorno, senza dimenticare di
strizzare un occhio agli skinhead del blitz contro i volontari della Rete Como
Senza Frontiere.
I
fatti ci dicono, quindi, che è davvero tempo di reagire e di trovare delle
risposte, delle soluzioni. Che è tempo di imparare a guardare, per capire, la
vera realtà che l’Italia sta vivendo, dotandosi anche di strumenti e di
conoscenze adeguate alla gravità del problema, al mal-essere della società.
In
Italia, manca una rilevazione sistematica sul razzismo, sulle sue forme, sulla
sua diffusione. Questo è, certamente, un problema: senza la conoscenza
approfondita, scientifica, di un fenomeno è difficile porre in essere azioni
per contrastarlo. È, al tempo stesso, un indice di quanto la questione sia sottovaluta
e tollerata dalle nostre istituzioni, da molti, troppi politici, che la usano a
loro totale interesse. Se si escludono il lavoro meritorio che da anni porta
avanti il gruppo di Lunaria con cronachediordinariorazzismo, alcune
indagini curate da singoli enti di ricerca o istituti universitari, oggi in
Italia il tema del razzismo rimane, da un lato, disconosciuto, dall’altro, sostanzialmente
non affrontato. Quanto alle questioni di genere, come rivelato, amaramente, già
da tempo, da tanti studi che varrebbe la pena leggere, la solidarietà per le
donne – persino di chi si definisce femminista, in tanti casi - è tale solo a
parole, una mera questione formale, e diminuisce man mano che le donne si
trovano a vivere e a testimoniare, in molti modi, con condizioni e destini
differenti, una vita ai margini, come
direbbe bell hooks: una diversità, che è anche una ricchezza piena di possibilità,
a cui nessuno guarda e che viene percepita da più parti come una minaccia…
Anziché
attrezzarsi per affrontare questioni cruciali per la vita democratica e civile
di un paese, si è preferito trincerarsi dietro quelle che Gigi Perrone, qualche
anno fa, chiamava virtù presuntive degli
italiani. Italiani, popolo di santi, navigatori: accoglienti per definizione,
sessisti, ma bonariamente, quasi per gioco, e in quanto tali lontani dal
razzismo, dalla violenza. Eppure la storia e la cronaca, non solo recente, ci
dimostrano continuamente quanto la violenza, questa banalità del male, nelle
sue diverse forme, sia, ormai da un pezzo, strutturale alla società italiana, presente,
nonostante il lavoro e l’impegno di tanti e tante, nelle famiglie, nelle
scuole, nelle istituzioni. Nella stessa società che ancora non riesce a fare
compiutamente i conti con il suo passato coloniale e le leggi razziali che ottant’anni
fa venivano varate.
Facciamo
solo alcuni esempi recenti. Non si contano più i pogrom scatenati, anche qui,
non dalla isteria collettiva (si ricorre sempre alla categoria della follia, dell’indefinibile, quando – per diverse
ragioni - non si vogliono affrontare i fenomeni per quello che sono), come nel
caso degli innumerevoli femminicidi (114 solo nel 2017), ma da azioni deliberatamente
pianificate e organizzate. Ci sono fatti che si perdono nella memoria, eppure
non bisogna andare troppo indietro negli anni. Come le violenze consumate ai
danni di uomini e donne che vivevano nel campo di Ponticelli (Napoli), nel 2008,
violenze avallate dalla destra reazionaria e xenofoba, ma anche dal Partito
Democratico locale, che affisse un vergognoso manifesto che, in qualche modo,
legittimava quella la violenza. Successe a Torino, nel 2011, quando fu dato alle
fiamme un campo rom. Accadde tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli
anni Novanta, quando quella che la stampa chiamava banda della Uno bianca commetteva una serie di delitti in Emilia Romagna,
buona parte dei quali guidati dalla violenza razzista. Così come non si contano
gli episodi di violenza razzista che la cronaca cerca, sistematicamente, di
derubricare ad altro. Il delitto di Emmanuel Chidi Nnamdi a Fermo, l’omicidio di Abba a Milano e tutti
gli altri, i troppi delitti di sangue guidati dalla violenza razzista.
Andiamo
avanti, continuiamo a voler ricordare, a voler guardare, perché la violenza
razzista, nella nostra società, non si esprime solo nella forma dei delitti: sono
vittime di violenza razzista i braccianti costretti nei ghetti, coloro che sopravvivono
o muoiono, di freddo, di troppo sole, di dolore, di povertà, o nei roghi, come
è accaduto, nel cosiddetto ghetto bulgari di
Borgo Mezzanone lo scorso anno, o a Becky Moses, una ragazza di 26 anni, a
Rosarno, soltanto pochi giorni fa, perché non aveva un posto dove andare. È violenza
l’indifferenza, il non voler guardare alle campagne desolate di questo bel paese,
che continuano ad esistere anche in inverno, regalandoci prodotti della terra
che noi mangiamo e accogliendo, in solitudine, tanta vita. Sarebbe un bene
entrarci, metterci piede, ogni tanto…
In
Italia sono vittime di violenza razzista circa 28 mila - uomini, donne e
bambini - costretti a vivere in campi rom e baraccopoli che sospendono diritti
e ne mortificano le condizioni di vita. Sono vittime di violenza razzista i
morti che insanguinano il Mediterraneo. Sono vittima di violenza razzista anche
gli uomini e le donne prigionieri e torturati nei lager libici, quelli che non
riescono più nemmeno a partire, a tentare di giungere in Europa, perché questa
è la realtà che si cela dietro alle parole di soddisfazione del ministro Minniti
quando rivendica il calo del numero di arrivi di cittadini stranieri nell’anno
appena trascorso.
Sono
vittime di violenza razzista gli uomini e le donne intrappolati nei campi
turchi, quei campi finanziati con sei miliardi di euro dall’Unione Europea.
C’è
violenza razzista all’interno degli hotspot,
dei Centri di Identificazione e Rimpatrio, dei Cara, di molti Centri di Accoglienza
Straordinaria, soprattutto quelli gestiti da holding e/o imprese, luoghi dove
si ammassano uomini in nome del profitto.
C’è
violenza razzista in tutte le leggi che il nostro Paese ha avuto in materia di
immigrazione, leggi che hanno considerato l’immigrazione, sempre e in primo
luogo, una potenziale minaccia per l’ordine pubblico.
C’è
violenza razzista quando vediamo un nemico nel volto di chi rischia la vita per
tentare di costruire un futuro migliore per sé stesso e per i propri figli,
anziché un essere umano con cui condividere un percorso, una scoperta di
cittadinanza in un mondo diverso, più giusto, più eguale per tutti.
C’è
violenza razzista nel processo di creazione di un nemico: lo straniero, l’invasore, il “terrorista” (della porta accanto!),
sul quale scaricare surrettiziamente le paure, le frustrazioni, le sofferenze
di larghe fasce di una popolazione sistematicamente impoverita dalla crisi,
dalla distruzione di tanto capitale sociale, portata avanti in trent’anni di
scelte politiche neoliberiste.
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