Credit: Laszlo Balogh
In questo 3 ottobre, ricordiamo le tante, le troppe,
vite ingoiate dal Mar Mediterraneo. Ma oltre a ricordare, l’Italia e l’Europa farebbero
bene ad attrezzarsi – e il prima possibile, visto che sono già in ritardo di
almeno trent’anni - per permettere finalmente a chi parte di giungere vivo e
incolume in Europa.
Le morti nel Mediterraneo non sono un incidente, né una
tragica fatalità. Non sono nemmeno conseguenza di scafisti senza scrupoli, come
spesso la stampa ci ripete. Le morti nel Mediterraneo sono conseguenza diretta
e immediata delle politiche migratorie europee (e italiane).
Per evitarle occorrerebbe poco: nell’immediato basterebbe
l’apertura di corridoi umanitari, seguita, in breve tempo, dalla riformulazione
delle politiche in materia di migrazione. Cosa, di per sé, tecnicamente
semplice, ma politicamente
complicatissima visti gli interessi in questione, i rapporti e le relazioni
economiche internazionali che si giocano sulla pelle delle persone, dei
migranti e di tutti noi.
Nel corso degli ultimi decenni, la questione
migratoria ha assunto una rilevanza centrale all’interno dell’agenda politica
dei diversi paesi dell’Unione europea. In tutti i paesi, il dibattito attorno
alle migrazioni è stato l’argomento fondamentale delle principali competizioni
elettorali nelle quali sostanzialmente si è riproposto, con poche sfumature, un
copione già sperimentato nel passato e risultato vincente sul piano del
consenso elettorale: presentare le migrazioni come una minaccia all’ordine
pubblico e sociale, parlando di “invasioni” o “emergenze”, per cui occorrevano
soluzioni “eccezionali”.
Il reale obiettivo di questo modo di approcciarsi
alle migrazioni è quello di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai
problemi del Paese, trovando al contempo un facile
capro espiatorio su cui scaricare la responsabilità delle problematiche
sociali, addossandole agli immigrati. Una volta confezionato questo pacchetto,
si possono proporre soluzioni che, se sul piano della regolamentazione del
fenomeno risultano totalmente inefficaci (come, ad esempio, l’aumento del
numero delle espulsioni per contrastare l’immigrazione irregolare), sul piano
mediatico invece raggiungono in pieno il loro obiettivo: tranquillizzare
l’opinione pubblica fornendo risposte rassicuranti, sebbene del tutto fittizie.
Se si guarda al modo in cui i diversi governi europei
si sono approcciati ai fenomeni migratori, non si faticherà a scorgere aspetti
ricorrenti riguardo la regolamentazione dell’ingresso sul territorio statale
dei cittadini stranieri. Aspetti che, a prescindere dal Paese o dal governo che
li mette in atto, esprimono il tentativo di trovare un equilibrio tra le
istanze dell’economia, la pressante richiesta di sicurezza artatamente
instillata nell’opinione pubblica e gli obiettivi di politica internazionale e
che spesso finiscono con il risolversi in leggi intrise di contraddizioni e
incoerenze.
La volontà dichiarata di contrastare l’immigrazione irregolare,
la difesa dei confini dal tentativo di infiltrazioni terroristiche, è divenuto
il leitmotiv di tutte le legislazioni nazionali europee e non, ma si è
espressa quasi esclusivamente mediante l’elaborazione di strumenti repressivi
quali l’irrigidimento e le esternalizzazioni dei controlli alle frontiere e il
rafforzamento delle garanzie d’esecutività per le espulsioni. Lasciando
totalmente nel dimenticatoio la promozione di percorsi di cittadinanza capaci
di favorire una reale inclusione sociale.
L'Unione Europea ha elaborato politiche migratorie
sempre più incentrate sugli aspetti repressivi e gli orientamenti securitari.
Nella normativa comunitaria sull’immigrazione e sull’asilo emergono in modo
evidente due anime opposte tra loro: sicurezza contro inclusione
ed altrettanto evidenti appaiono le diverse velocità a cui viaggiano i due
piani: progressiva e rapida armonizzazione nella repressione delle
“irregolarità” migratorie; lenta e frammentata elaborazione di una base di
regole comuni per l’immigrazione “regolare”.
L’armonizzazione normativa tra gli Stati membri è
finora avvenuta pressoché esclusivamente “in negativo”, ovvero con la
diffusione di pratiche repressive e di standard di diritti al ribasso, sintetizzata
nella pratica dell’espulsione/allontanamento, dinamica che costituisce il filo
rosso che unisce gli accordi di riammissione, i centri di detenzione (in Italia
sono denominati CIE), la protezione e i controlli delle frontiere.
Tutti gli sforzi
fatti fin ora dagli Stati sono andati nella direzione di assicurare la chiusura
delle frontiere, nell’infondata illusione di bloccare i flussi migratori,
mentre, in concreto, nulla o quasi nulla è stato fatto per favorire la
promozione della conquista dei diritti inalienabili di cui ogni individuo è
portatore. Gli stessi diritti nati in seno alla civiltà giuridica dell’Europa
mediterranea.
(Antonio Ciniero)
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