Antonio Ciniero
pubblicato in sbilinfo
I dati sulla povertà
diffusi ieri dall’Istat sono
allarmanti: 1 milione e 470 mila
famiglie (5,7% di quelle residenti) vivono in condizione di povertà assoluta,
per un totale di 4 milioni 102 mila persone (6,8% della popolazione residente)
e ben 2 milioni 654 mila famiglie e 7 milioni 815 mila persone vivono in
condizione di povertà relativa.
In Italia ci sono quasi 12 milioni di poveri su 60 milioni di abitanti!
Questi dati sono l’indicatore
di una situazione strutturale e non semplicemente congiunturale. La crisi degli
ultimi anni ha, al più, aggravato processi di esclusione sociale vecchi almeno
di un trentennio. Si tratta di processi che colpiscono in misura sempre più
consistente anche chi ha un lavoro: la povertà assoluta interessa il 9,7% delle
famiglie in cui il principale percettore di reddito è un operaio.
I processi di terziarizzazione e
l’informalizzazione dell’economia, il peso crescente delle forme di lavoro
nero, precario e temporaneo, denunciano lo scollamento tra l’attività
lavorativa, da un lato, e l’incapacità delle politiche pubbliche di garantire
condizioni minime di vita e integrazione sociale, dall’altro. Il cumularsi di
svantaggi sociali a carico di determinati gruppi di popolazione – minoranze,
immigrati, abitanti di aree periferiche (ma non solo) delle grandi città del
nord Italia, abitanti del meridione – si traduce, sempre più drammaticamente,
in un ampliamento della massa di soggetti costretti a vivere in condizione di
esclusione sociale.
Gli assetti societari contemporanei,
risultato dell’alchimia liberista, sono caratterizzati da sempre maggiori
squilibri socio-economici per i quali esistono forme di protezione sociale
sempre più ridotte, di fatto inesistenti o comunque inefficaci, specie quando
hanno natura palesemente elettoralistica. Il caso italiano in ciò è
emblematico, valga come esempio tra i tanti il bonus bebè. In un paese che a livello
europeo è tra quelli che hanno meno strutture di asilo nido in rapporto al numero
dei potenziali fruitori del servizio, si è avuto l’ardire di presentare come politica
per le famiglie niente di meno che: ottanta euro al mese!
Oggi, i segmenti di una nuova
emarginazione, a cavallo tra lavoro e non lavoro, si allargano sempre più e
arrivano a comprendere anche quegli strati che fino a pochi anni fa erano
considerati garantiti. Tra i fattori che espongono al rischio povertà non c’è
più solo la perdita di lavoro, banalmente anche la nascita di un figlio, specie
se il secondo o il terzo, può spingere una famiglia al disotto della soglia di
povertà! Non casualmente è aumentato anche il numero dei minori in condizione
di povertà.
Nonostante queste evidenze,
un serio impegno per ricercare soluzioni politiche è del tutto assente e laddove
c’è difficilmente assume forme diverse della cosiddetta flexsecurity. Insomma, la progettazione di politiche
economiche che facciano del lavoro il fondamento della società (come vorrebbe, nel caso
italiano, la nostra stessa costituzione) e il pilastro delle politiche
redistributive è semplicemente inesistente.
L’impegno per implementare
i servizi di welfare non trova spazio nell’odierna agenda politica nazionale e
internazionale, anzi la direzione è un’altra: solo il ragionieristico
contenimento della spesa pubblica dettata dal dogma dell’austerity. Così
si continuano a smantellare parti sempre più consistenti di welfare, si sospendono
servizi e diritti, si colpiscono le fasce sociali più deboli e si fanno aumentare
cronicamente le sacche dell’esclusione sociale. In questo scenario, il
diffondersi della paura, dell’insicurezza individuale, dello sfilacciamento
sociale, il venir fuori di atteggiamenti violenti e xenofobi, come la storia ci
ha insegnato, non è affatto un aspetto da trascurare.
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