Antonio Ciniero
Il 25 agosto del 1989, a Villa Literno, in provincia di Caserta, Jerry Masslo, fu colpito a morte con tre colpi di pistola nel capannone dove dormiva perché rifiutò di consegnare ad una banda di balordi il denaro che aveva faticosamente messo da parte raccogliendo pomodori per tre lunghi mesi. Masslo aveva 30 anni quando è morto, era un esule sudafricano, impegnato nella lotta contro il regime di apartheid, scappato in Italia perché nel suo paese rischiava la vita e tuttavia nel nostro paese non fu riconosciuto rifugiato politico per via della riserva geografica, allora in vigore, con la quale l’Italia aveva sottoscritto la Convenzione di Ginevra.
Il 25 agosto del 1989, a Villa Literno, in provincia di Caserta, Jerry Masslo, fu colpito a morte con tre colpi di pistola nel capannone dove dormiva perché rifiutò di consegnare ad una banda di balordi il denaro che aveva faticosamente messo da parte raccogliendo pomodori per tre lunghi mesi. Masslo aveva 30 anni quando è morto, era un esule sudafricano, impegnato nella lotta contro il regime di apartheid, scappato in Italia perché nel suo paese rischiava la vita e tuttavia nel nostro paese non fu riconosciuto rifugiato politico per via della riserva geografica, allora in vigore, con la quale l’Italia aveva sottoscritto la Convenzione di Ginevra.
Il
20 luglio dell’anno scorso, Abdullah Mohamed, cittadino sudanese, riconosciuto
rifugiato politico dall’Italia, muore a soli 47 anni mentre raccoglie pomodori
in un campo del Salento, non ha un contratto per quel lavoro, è arrivato a
Nardò solo un paio di giorni prima della sua morte, dormiva nei campi,
all’interno del ghetto di Nardò.
L’8
giugno 2016, Sekine Triore, 26 anni, proveniente dal Mali, muore nella
tendopoli di San Ferdinando, alle porte di Rosarno in Calabria.
Può
sembrare azzardando mettere in relazione queste tre morti? Forse sì, ma non si
possono non tenere in considerazione alcuni elementi che le accomunano …
A
morire sono stati in tutti e tre i casi uomini costretti ad uno sfruttamento
inumano, quello che permette di produrre buona parte del made in Italy, quel
made in Italy consumato con troppa leggerezza sulle tavole imbandite, quello
che si esporta, quello che le filiere cercano di ripulire superficialmente
dall’odore dell’ingiustizia, ma forse no, questa circostanza è solo un caso e
queste tre morti non hanno nulla in comune;
Così
come forse è solo un caso che queste vite, troppo velocemente strappate
all’affetto dei propri cari, siano state costrette, nella civilissima Europa,
nell’Italia culla dei diritti, in luoghi abbietti, lontano dallo sguardo e
dalla coscienza civica di un paese o di quello che ne resta, relegate nei tanti
ghetti e tendopoli, tappe obbligate che puntellano le traiettorie del
lavoro stagionale agricolo in Italia; luoghi che costringono questi uomini ad
un’eterna provvisorietà, che li pongono al di là di ogni forma di esclusione
sociale, un’esclusione difficile financo da immaginare.
Forse
queste tre morti non hanno nulla in comune, o forse, hanno così tanto in comune
che è meglio tacerlo, è meglio renderlo invisibile perché altrimenti si dovrebbero
chiamare in causa pesanti responsabilità politiche, economiche e civili di
questo paese …
È
più facile, più accettabile, derubricare queste tre morti ad altro, e allora
sì, è meglio pensare che Jerry sia morto solo per colpa di balordi, Mohamed solo
perché faceva caldo e Sekine per legittima difesa. È meglio pensare questo, è
meglio non interrogarsi, non interrogare le Istituzioni, meglio non
preoccuparsene, infondo, quanto può valere la vita di uomini che si costringe
ad una non esistenza?
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