Introduzione
Presenze
rom in Puglia e nel Salento nel tempo
La Puglia, e la penisola salentina in
particolare, sono da sempre via di transito e punto di approdo tra oriente e
occidente. Dai tempi più remoti fino all’oggi, genti molto diverse si sono
avvicendate e hanno continuato a intrecciare i propri destini e le proprie
storie su questo lembo di terra periferico e allungato nel Mediterraneo. Fra i
tanti innumerevoli approdi, perduto dalla memoria popolare, quello, storico, di
persone appartenenti alla popolazione romanì, una presenza che nei secoli è
entrata a far parte di una storia e di un patrimonio culturale ed economico
comune.
Nel Salento, le prime presenze rom si
registrano ufficialmente a partire dal XVI secolo, anche se molto
probabilmente, come ricorda Piasere (1988), alcuni gruppi vi giunsero già tra
il XIV e il XV secolo, durante la prima avanzata dell’esercito ottomano verso
l’Europa continentale, quando approdavano sulle coste che le cartine del tempo
definivano appartenenti alla provincia di Terra d’Otranto. Tracce di
interazioni con il territorio di persone di origini rom in Puglia, giunte con
gruppi slavi e greco-albanesi provenienti dai Balcani, sono databili già con
sicurezza nella seconda metà del Cinquecento e sono rintracciabili nella
numerazione dei fuochi del 1574 dei centri minori del Salento. A Galatone, un
feudo distante circa 30 km da Lecce, furono contati in quell’occasione “5
zingari” tra i fuochi straordinari presenti.[1]
Anche se sicuramente numerosi furono gli spostamenti e le interazioni con
gruppi rom presenti in altri feudi centro-meridionali della penisola (come
quelli della Basilicata), è possibile far risalire a questo periodo la presenza
di famiglie rom in diverse zone della regione, oltre che nella provincia di
Lecce, anche nel tarantino, nel brindisino e nel foggiano, dove ancora vivono
molti loro discendenti.
Un secondo gruppo di cittadini di origine
rom giunge nel Salento negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, per la gran
parte dall’ex-Jugoslavia e dal Kosovo. Giunti per motivi principalmente economici
all’inizio, a partire dagli anni Novanta chi arriva in Puglia è in fuga dalle
guerre che per tutta la decade insanguineranno i Balcani. Profughi dunque, che però
non verranno mai riconosciuti come tali, ma che anzi la comoda etichetta di nomadi, invenzione delle istituzioni,
costringe – in tutto il territorio pugliese - ad un nomadismo forzato dai continui sgomberi loro riservati o ad una
vita all’interno di campi, veri e propri ghetti, per loro pensati, come nel
caso di Lecce, o tollerati e semi-attrezzati, come nel caso di Modugno (Bari), dalle
istituzioni. In pochi tra questi, per lo più autonomamente, sono riusciti nel
corso degli anni ad uscire fuori dai campi e a vivere in abitazioni inserite
nel tessuto urbano e sociale delle città pugliesi.
Un ultimo gruppo di cittadini di origine
rom giunge in Puglia nella seconda metà degli anni Duemila. Si tratta, per lo
più, di cittadini rumeni e di alcuni cittadini bulgari che, facilitati
dall’ingresso nella comunità europea dei lori paesi, riescono a muoversi, senza
grandi difficoltà, all’interno dell’area Schengen. Le loro condizioni d’inserimento
sociale e abitativo sono molto eterogenee: c’è chi vive nei campi attrezzatati
(è il caso di un gruppo rom rumeni che vive nel campo di Japigia della città di
Bari), chi in abitazioni e chi ancora è costretto ad arrangiarsi come meglio
può. Tra questi, diverse famiglie dormono in stabili lasciati all’abbandono: è
quanto avviene nelle campagne del foggiano, soprattutto nell’agro di Ortanova,
Zapponeta e di Lesina, dove non sono pochi i soggetti che prendono parte alla
raccolta stagionale dei pomodori, tristemente nota per le condizioni
paraschiavili del lavoro. Altri vivono in campi improvvisati e altri ancora,
come nel caso di Lecce, oltre che in abitazioni, in tende da campeggio montate
nelle vicinanze della stazione ferroviaria o in posti periferici della città (in
alcuni casi, all’interno delle proprie autovetture).
Nelle pagine che seguono, si
presenteranno alcune situazioni paradigmatiche relative ai processi di
inclusione/esclusione di tre diversi gruppi di cittadini di origine rom
presenti nel territorio salentino: i rom italiani residenti in alcuni comuni
del Salento, il gruppo dei rom xoraxané attualmente residente nel campo sosta
della città di Lecce e alcune famiglie di rom rumeni che vivono da qualche anno
nella città di Lecce. L’intento che ci si prefigge, non è tanto quello di fare
una ricostruzione quantitativa e puntuale delle presenze rom sul territorio, cosa
peraltro ardua visti i noti problemi (sia metodologici che epistemologici) che
implica l’operazione, né presentare le caratteristiche socio-economiche dei
diversi gruppi, quanto, piuttosto, riflettere su come si costruiscano,
politicamente e socialmente, le condizioni e i percorsi di inserimento e
interazione su uno specifico territorio tra un gruppo di popolazione e la
popolazione maggioritaria. Senza avere alcuna pretesa di generalizzazione, partendo
da specifici casi, si cercherà di vedere in che modo incidano sulla vita e sui
percorsi esistenziali dei singoli e delle loro famiglie le dinamiche
migratorie, le decisioni politiche, i processi di interazione sociale e le
modificazioni socio-economiche che contribuiscono a determinare le modalità in
cui avvengono i processi di interazione e scambio tra gruppi rom e società
maggioritarie.
Lo spazio maggiore sarà dedicato alla
presentazione del caso dei rom xoraxané perché, sul territorio, è stato l’unico
gruppo ad essere oggetto di specifici interventi politici e istituzionali. Nel
caso dei rom xoraxané, come si avrà modo di vedere, sono stati proprio gli
interventi pubblici a trasformare le questioni sociali poste dalla presenza di
alcune famiglie in un problema a cui
si è voluto rispondere con politiche
etniche, rivolte cioè ad uno specifico gruppo che quelle stesse politiche
hanno contribuito a definire in maniera omogenea sulla base di pregiudizi
mutati, a loro volta, dalle prassi amministrative attuate in altre città di
Italia. Nel caso dei rom italiani e rumeni invece, non si è avuto nel Salento
un intervento politico e istituzionale loro diretto in quanto appartenenti ad
uno specifico gruppo con caratteristiche radicalmente diverse da quelle del
resto della cittadinanza, ma, quando si è avuto, è stato un intervento rivolto
al singolo o alle singole famiglie, sia per quanto riguarda gli interventi dei
servizi sociali, sia gli interventi di sostegno alla scolarizzazione. Inoltre, elemento
di non secondaria importanza, nel caso delle famiglie rom salentine, il
processo di interazione con la società maggioritaria è durato diversi secoli ed
il loro inserimento è avvenuto inizialmente all’interno di un sistema-socio
economico essenzialmente agricolo-artigianale dove le famiglie rom hanno
occupato nicchie occupazionali (lavorazione di utensili e allevamento/commercializzazione
equina) essenziali per il funzionamento del sistema economico locale (Piasere, 1999). Si trattava dunque
famiglie che, sebbene connotate socialmente, hanno svolto per secoli un ruolo fondamentale
nel territorio.
1. Le famiglie rom salentine: una storia
di contaminazione
Non sono molti a conoscere l’esistenza di
un cospicuo gruppo di famiglie rom che da, almeno tre secoli, è presente in
diversi comuni della provincia di Lecce, tra cui Muro Leccese, Taurisano,
Martano, Melpignano e Salice Salentino, solo per citarne alcuni. Si tratta di
singoli e famiglie che vivono immersi nel territorio, ne fanno parte, contribuiscono
alla sua crescita e alla sua trasformazione. Molti, tra loro, non parlano più romanes,
alcuni non lo hanno mai parlato, alcuni rivendicano con orgoglio le loro
origini rom, altri le nascondono, altri ancora non si pongono affatto il
problema e c’è anche chi ignora di avere antenati rom. La casistica potrebbe
continuare…
L’immagine de “lu zingaru” fa parte
dell’immaginario popolare tradizionale salentino. Era una figura dai tratti ben
riconoscibili nelle comunità contadine del posto, per lo più legata ai mestieri
artigianali che venivano tramandati di padre in figlio e ad attività economiche
di supporto all’economia agricola su cui si reggeva la gran parte dei comuni
della provincia leccese fino agli anni Settanta del Novecento. Tra i mestieri
che tradizionalmente esercitavano le famiglie rom vi erano quelli legati
all’allevamento e alla commercializzazione dei cavalli, la quasi totalità dei
sensali nelle fiere di bestiame locali erano rom. L’allevamento e la
commercializzazione del cavallo erano attività di centrale importanza in un’economia
agricola in cui la lavorazione della terra era fondamentalmente legata alla trazione
animale e al lavoro delle braccia dei contadini. Vi erano poi i mestieri
artigianali legati alla lavorazione dei metalli e alla vendita di utensili da
lavoro, sia per l’agricoltura, sia per i lavori domestici (la produzione di
pentolame, per esempio). Ancora in tempi abbastanza recenti, erano le donne di
origine rom che vendevano, durante le fiere e i mercati settimanali, i diversi
tipi di ferri utilizzati per la
preparazione della pasta fatta in casa e i ferri per lavorare la lana. Vi erano
poi i mestieri artigianali legati alla riparazione di oggetti in creta, i
cosiddetti “conza limme” nel dialetto locale, che giravano di paese in paese.
Tutti mestieri che, con l’avvento della meccanizzazione in agricoltura, da un
lato, e i più generali processi di modernizzazione, dall’altro, sono stati, di
fatto, resi desueti e superati. In molti hanno quindi cambiato mestiere: i
lavori “de li zingari” sono via via scomparsi o sono stati reinventati, come è
avvenuto nel caso dei gestori delle macellerie equine ancor oggi quasi tutti discenti
di queste antiche famiglie rom.
Non sono molti gli studi che hanno
ricostruito e analizzato questo spezzone di storia locale[2].
Eppure si tratta di una storia emblematica, che dimostra come processi, seppure
lunghi, di interazione positiva siano possibili, soprattutto quando gruppi di
persone non diventano oggetto di politiche emanate sulla base di uno specifico
target etnico-culturale.
Recentemente, a far emergere una parte di
questo processo di interazione tra famiglie salentine rom e famiglie salentine
non rom, mettendo insieme una narrazione diversa, fatta di memorie, immagini e
voci di generazioni differenti, sono stati Claudio “Cavallo” Giagnotti e
Pierluigi De Donno con il documentario Gitanistan
(2014) (http://www.gitanistan.com). Quella raccontata da Gitanistan
è storia del territorio, di esperienze di vita e di lavoro, di strade e di
tentativi, prima di tutto personali, di aprire e chiudere confini sia identitari che sociali. È una storia che parla anche di
successi[3],
che fa vedere il processo di interazione tra rom e non rom al di fuori dei
soliti cliché e, al contempo, riuscendo a sfuggire al rischio
dell’edulcorazione. Gitanistan
affronta anche il tema dei rapporti sociali che si creano su un territorio che,
per definizione, sono asimmetrici e, poiché tali, spesso rimandano a dinamiche
di esclusione e inferiorizzazione: non casualmente, nel film, che si regge
sulle interviste di donne e uomini salentini di origine rom, sono soprattutto
le parole delle donne a sottolineare le dinamiche dell’esclusione e dei
pregiudizi da loro vissute durante gli anni della scuola, mentre lavoravano o
nell’ambito dei rapporti sociali e famigliari. Sono le loro storie ad aiutarci
a percepire tutto l’universo di valori di cui si sentono parte, ma anche a
mettere in discussione l’idea monolitica che spesso si ha, non solo della
comunità, ma anche della famiglia, e sono le loro testimonianze a far vedere
come la cultura non sia un destino immutabile, ma un processo di costruzione e
interpretazione continua, così come le tradizioni, lontane dall’essere elementi
di divisione e chiusura - come un certo discorso politico (ma non solo)
vorrebbe - siano null’altro che il frutto dell’incontro e della contaminazione che
avviene tra i soggetti che abitano un territorio. È così che accade, ad
esempio, per la tradizione culinaria (i pezzetti di carne di cavallo al sugo,
piatto tipico della cucina locale) o artistico-musicale (tra i tanti esempi: la
tradizionale pizzica scherma o la formazione di gruppi musicali e progetti
culturali nati dalla contaminazione) che ogni luogo esprime.
Questo documentario, e il progetto
culturale che lo sottende, oltre a far conoscere una realtà quasi sconosciuta, ha
avuto, tra gli altri pregi, quello di superare con semplicità e immediatezza la
visione essenzialista che per lungo tempo ha caratterizzato, e in alcuni casi
caratterizza ancora, gli studi in materia sui gruppi rom, facendo vedere quanto
sia fallace il tentativo di ricercare il “vero zingaro” tanto sul piano degli
studi scientifici, quanto su quello dei rapporti politici e sociali (Piasere,
1995). Un approccio che potrebbe apparire scontato, ma che non lo è affatto,
considerando quanto ancora l’approccio culturalista vizi molte delle
rivendicazioni politiche portate avanti da ampi settori sociali anche interni
dall’intellighenzia romanì e, cosa
forse anche più grave, come ancora continua a condizionare fortemente le scelte
politiche di attori istituzionali nazionali e internazionali.
Rispetto all’economia generale di questo
scritto, la situazione delle famiglie rom salentine mostra come l’assenza di
specifiche politiche istituzionali abbia giocato un ruolo importante nei
processi di inclusione sociale, di scolarizzazione e interazione positiva con
il territorio che le famiglie rom salentine hanno costruito nel tempo. Processi
d’interazione che, in alcuni casi, diventano anche di mimetizzazione; una strategia che si rivela funzionale a rifuggire
i pregiudizi molto diffusi per i cittadini di origine rom, sia italiani che
stranieri, che vivono in diverse parti di Italia e che favorisce, non senza
contraddizioni (soprattutto sul piano individuale e identitario dei soggetti),
processi di inclusione sociale di maggiore successo.
L’esperienza delle famiglie rom salentine
ci ricorda che se è vero che i rom sono considerati come un’alterità
irriducibile in quasi tutte le società, i diversi
per eccellenza, è altrettanto vero che il
pregiudizio antitsigano non è trascendente, decontestualizzato e a-storico, ma
è un atteggiamento costruito socialmente e incentivato, in primis, proprio
dalle politiche che negli anni, nel caso italiano a partire già a partire dal periodo
fascista, si sono rivolte indistintamente ai rom, inventandoli e definendoli
a priori come un gruppo omogeneo contraddistinto principalmente dal fatto di
essere indistintamente nomadi e asociali (Bravi, 2009). Quello del
nomadismo e dell’asocialità è uno stereotipo che resta attivo e diffuso, non
solo a livello di senso comune, ma anche nell’azione politica che prima lo Stato[4]
e poi i singoli provvedimenti legislativi regionali[5]
rivolgono ai gruppi rom e sinti presenti in Italia. Sono queste politiche che,
più o meno consapevolmente, hanno tentato di dare risposte di tipo culturale a quelle
che in realtà erano istanze sociali: il diritto all’abitare, al lavoro,
all’istruzione, ottenendo tra gli altri effetti anche quello di far passare
nell’opinione pubblica per accettabili
differenze culturali (vivere nei campi) quelle che, in realtà, sono conseguenze
di inaccettabili differenze sociali.
2. I rom e l’intervento pubblico nel
Salento: il caso dei rom xoraxané tra etninicizzazione ed esclusione
Le prime famiglie d’origine rom
provenienti dall’ex-Jugoslavia, tutt’ora residenti nel capoluogo salentino
all’interno del Campo sosta Masseria Panareo, giungono sul territorio nei primi
anni Ottanta, a seguito della crisi che interessa l’ex-Jugoslavia dopo la morte
di Tito. Inizialmente si tratta di una sola famiglia, composta da una ventina
di persone, a cui, nel corso degli anni, si aggiungono altri gruppi familiari.
Fino ai primi anni Novanta, arrivano a Lecce principalmente cittadini rom
provenienti dal Montenegro (in particolare, dalla sua capitale, Podgorica). Con
la crisi del Kosovo (tra il 1996 e il 1999) al gruppo montenegrino si
aggiungono altre famiglie rom di origine kosovara. Tutte le famiglie
appartengono alla minoranza albanofona di cultura islamica (rom xoraxané
shiftaria). Questo gruppo di cittadini rom giunge in Italia sulla scia dei più
generali flussi migratori e non per “innato istinto nomade”[6]. Nel paese di origine
vivevano in abitazioni stabili, inserite all’interno del tessuto urbano e
sociale, sebbene periferico, delle loro città e avevano esercitato vari
mestieri, in non pochi casi come lavoratori dipendenti[7].
L’approccio delle istituzioni locali
rispetto a queste presenze rom si è modificato nel tempo. Si è passati da un
iniziale disinteresse ad una gestione emergenziale, che ha fatto dell’ordinanza
di sgombero per motivi di sicurezza e ordine pubblico lo strumento “politico”
principalmente utilizzato almeno fino al 1995, anno in cui il Comune di Lecce
ha deciso di proporre l’istituzione di un campo sosta.
Durante la fase di disinteresse
istituzionale, che va dagli anni Ottanta ai primi anni Novanta, queste presenze
rom sono totalmente ignorate dalle istituzioni locali. Le uniche realtà che si
interfacciano con le famiglie rom sono le associazioni del volontariato locale
(in particolare, la Caritas diocesana di Lecce e l’associazione Comitato per la
Difesa dei Diritti degli Immigrati) che, oltre a fornire supporto materiale
alle famiglie, sollecitano, invano, l'intervento delle istituzioni, chiedendo
l’adozione di provvedimenti in ottemperanza alle norme a tutela dei diritti dei
cittadini stranieri (Perrone, Sacco, 1996). In quegli anni la loro principale
fonte economica è rappresentata dal mangel[8] che donne e bambini
esercitano davanti alle chiese, ai supermercati, ai semafori. Nel febbraio del
1991 le famiglie decidono di occupare uno stabile disabitato di proprietà
comunale nell'immediata periferia di Lecce (le ex case popolari di Via Genuino)
nei pressi del cimitero comunale e della statale Lecce-Brindisi. Si tratta di
uno stabile degradato e fatiscente, ma qui le condizioni sembrano migliorare
rispetto a quelle della precedente sistemazione: riescono, infatti,
abusivamente, ad avere l’energia elettrica e l’acqua corrente riattivando
vecchi rubinetti. E, cosa più importante, hanno la possibilità di avere un
tetto e quattro mura che fungono da riparo (De Luca, Panareo, Sacco, 2007).
Con l’arrivo nelle case di via Genuino,
le istituzioni prendono atto di queste presenze oramai stabili sul territorio
da più di un decennio, ma, anziché adoperarsi per garantire un percorso
concertato con i diretti interessati volto all’inclusione sociale, si muovono
sulla spinta di una presunta emergenza e, come primo atto politico rivolto ai
rom, emanano un decreto di sgombero dello stabile, senza proporre alcuna
soluzione alternativa alle famiglie. Di sgombero in sgombero si arriva al 1995
quando il Comune di Lecce decide di affrontare politicamente la questione della
residenza dei rom montenegrini proponendo anche per Lecce la soluzione del
campo sosta. Diviene quasi naturale per la prima amministrazione progressista nella
storia repubblicana della città pensare al campo come forma abitativa consona
alla cultura e allo stile di vita di un gruppo di cittadini ritenuti
erroneamente nomadi. Il tutto si svolge
senza il coinvolgimento dei diretti interessati, le famiglie rom, né delle
realtà del terzo settore che, nel corso degli anni, avevano offerto supporto
alle famiglie rom[9].
Individuata la soluzione del campo sosta,
le istituzioni decidono di “accogliere” e far sostare i cittadini rom, dapprima
nell’ex-campeggio di Solicara (1995) località sita sulla costa adriatica a 15
km da Lecce, poi, dal 1998 ad oggi, nell’area di Masseria Panareo.
Per raggiungere il campo sosta in
questione bisogna percorrere per circa
sette chilometri la strada che da Lecce conduce al comune di Campi Salentina. Il
campo è situato in aperta campagna, in un luogo dove in passato sorgeva una
masseria oramai diroccata dall’incuria e dal passare del tempo. È un luogo
isolato, circondato da distese di ulivi e separato dai comuni del circondario.
Non molti tra i cittadini di Lecce e dei comuni vicini conoscono l’esatta
collocazione del campo, o la sua stessa esistenza. Lungo la strada provinciale
che conduce al Panareo c’è solo una piccola freccia con la scritta “Campo
sosta” che ne indica l‘ingresso.
Lasciata la
strada provinciale, per entrare nel campo si devono percorrere pochi metri su
una stradina sterrata e attraversare un cancello. L’intero perimetro del campo
è circondato da un muro alto circa un metro e mezzo. Una volta dentro, basta un
semplice colpo d’occhio per identificare almeno due aree distinte, una, per
così dire “istituzionalizzata”[10],
la prima che si incontra entrando nel campo, sulla quale è disposta su una
gettata di cemento una fila di dieci container, tutti bianchi e con il tetto
verde, corredati di parabola, e due file composte ognuna da otto prefabbricati
in muratura di colore rosa pesco; una seconda area, contigua alla prima, che
sorge su uno spazio sterrato dove sono state costruite, dagli stessi rom,
baracche in muratura affiancate a vecchie roulotte, in buona parte messe a
disposizione dei rom dal Comune di Lecce nei primi anni in cui il campo è stato
allestito. Anche questa seconda parte è recentemente stata oggetto di
intervento istituzionale, da quest’anno, la maggior parte delle baracche sono
state abbattute e sostituite da container, un’operazione costata
complessivamente circa 800 mila euro - messi a disposizione del Comune di Lecce
dalla Regione Puglia - con la quale, Comune e Regione, anziché andare verso il
superamento della logia dei campi, hanno deciso di percorrere una direzione
diametralmente opposta a quella prescritta dalla Strategia Nazionale per
l’Integrazione dei RSC[11].
Attualmente nel campo vivono poco più di
250 persone, divise quasi equamente tra uomini e donne. Di queste, quasi la
metà (43%) è nata in Italia e ben il 30% a Lecce. C’è un’intera generazione,
che a differenza dei genitori, non ha conosciuto nessun’altra condizione
abitativa se non quella del campo. Nel complesso si tratta di una popolazione
molto giovane: il 75% ha meno di trent’anni e, tra questi, il 40% ha meno di
quindici anni. La quasi totalità, eccezion fatta per i più anziani (i primi
arrivati), è scolarizzata, nel senso che quantomeno ha assolto o sta
assolvendo, non senza difficoltà, l’obbligo formativo.
La maggior parte della vita sociale,
specie delle donne e dei più giovani, si svolge prevalentemente all’interno del
campo, anche perché non esistono collegamenti pubblici tra il campo e la città
di Lecce o gli altri comuni vicini[12]. L’unico modo per poter
uscire dal campo è utilizzare un’auto o una moto, oppure, ma la cosa diventa
piuttosto pericolosa, percorrere i chilometri che separano il campo dalla città
a piedi o in bici.
La vita sociale interna al campo ruota
attorno all’organizzazione dei ruoli famigliari che sono fortemente strutturati
sulla base del genere e ‘organizzati’ gerarchicamente. La maggior parte delle
famiglie del campo è di tipo allargato e, anche quando la struttura è di tipo
nucleare, i ruoli sociali sono iscritti nelle dinamiche della famiglia
allargata. Se l’uomo è il tramite con l’esterno, colui attraverso il quale si
mantengono le relazioni sociali con le altre famiglie e che, almeno
formalmente, decide delle questioni importanti (fidanzamenti, matrimoni,
risoluzioni di conflitti), la donna è il vero architrave della famiglia. Sposa
e madre di numerosi figli già in giovanissima età, regge di fatto l’intera vita
familiare: è a lei che spetta la completa organizzazione dello spazio
domestico. Vigendo la regola della virilocalità, è la moglie del primo figlio
maschio, in particolare, che si fa carico del maggiore peso delle incombenze
famigliari. Oltre a dover provvedere all’educazione dei figli, si occupa della
quasi totalità delle faccende domestiche (cura della casa, igienizzazione degli
spazi, preparazione dei pasti, etc.). Attività che svolge sotto il costante
controllo dell’autorità del marito e della suocera, così come in precedenza,
prima di sposarsi, erano svolte sotto quella del padre, della madre e dei
fratelli maggiori. Un controllo che si riflette, in ogni periodo della sua
vita, anche in tutti gli altri ambiti, da quello corporeo alle relazioni
sociali.
La dimensione di genere condiziona e
struttura l’intera vita sociale interna al campo. Prima dei quindici anni, di
solito, sia i ragazzi che le ragazze passano il loro tempo libero dagli impegni
scolastici, quasi esclusivamente, nel campo. Fino alla pubertà, giocano
indistintamente tra loro e, dopo, secondo una sempre più rigida divisone per
genere. Tra gli adulti, le donne continuano a passare il tempo libero
all’interno del campo, riunite per gruppi famigliari, gli uomini invece si
riuniscono prevalentemente presso il bar presente nel campo o, più spesso, al
di fuori del campo, soprattutto all’interno dei centri scommessa della
periferia di Lecce o nei bar dei paesi limitrofi.
La maggior parte del tempo delle donne è
un tempo immerso e confinato nella dimensione del campo. Difficilmente escono
da sole, in molte non hanno la patente o la disponibilità di un’auto. L’uscita
dal campo è subordinata allo svolgimento di attività lavorative o per far
fronte alle incombenze familiari (soprattutto fare la spesa), ma vengono svolte
in compagnia del marito o di qualche altro membro della famiglia. Non poter
essere libere di lasciare il campo, anche se solo per brevi periodi, significa
essere sottoposte sistematicamente al controllo di qualcuno. Non avere un auto
o la possibilità di muoversi autonomamente significa per loro partecipare alla
vita esterna al campo solo in maniera subalterna.
Gli uomini invece passano la maggior
parte del loro tempo fuori dal campo, sia lavorando che nel tempo libero.
L’attività del gioco, in particolare quella praticata presso i punti SNAI, è
molto diffusa tra gli uomini del campo. È durante i pomeriggi passati a giocare
e scommettere sui risultati delle partite calcistiche che si costruisce il
proprio prestigio sociale e si saldano e rafforzano i legami sociali tra gli
uomini rom e con i cittadini autoctoni che abitualmente frequentano gli stessi
centri scommessa della periferia urbana. Per un uomo rom è importante godere
del rispetto degli altri: l’abilità nel gioco, la capacità di vincita, la
generosità dimostrata offrendo da bere agli amici durante il tempo trascorso a
scommettere, il ‘successo’ con le donne gagé, sono tutti elementi che
contribuiscono a far aumentare il prestigio sociale del singolo agli occhi
degli altri. È in questi centri o in alcuni bar, sempre ubicati nelle zone
periferiche e semiperiferiche della città di Lecce, che molti degli uomini del
campo, soprattutto quelli più adulti, instaurano e mantengono rapporti di
amicizie con i cittadini leccesi.
I più giovani invece, quando riescono ad
uscire dal campo, oltre al tempo dell’orario scolastico, preferiscono
incontrare i loro amici nel centro storico della città di Lecce, nei luoghi in
cui, specie la sera, si svolge la movida locale. Anche in questo caso, la
maggior parte dei ragazzi che i rom frequentano fuori dalle aule scolastiche,
vivono nelle zone periferiche e semiperiferiche della città di Lecce o nei
paesi vicini. A molti dei ragazzi e delle ragazze che frequentano solo al di fuori
del campo, diversi rom, conoscendo bene la dinamica del pregiudizio nei loro
confronti, preferiscono tenere nascosto il luogo dove risiedono.
Oltre che dai rom che ci vivono, il campo
è frequentato anche da alcuni parroci di Lecce e dei comuni vicini, volontari
di associazioni, le famiglie rom che non risiedono più nel campo e che ci
tornano per far visita ai parenti lì rimasti e cittadini leccesi.
Rispetto alla generale condizione
lavorativa di questo gruppo di rom, un dato meramente quantitativo da prendere
in considerazione è che ben il 62% dei residenti in età attiva ha
un’occupazione[13], ma se
è vero che la maggioranza dei rom residenti nel campo di Lecce lavora, è vero
anche che la gran parte dei lavori svolti non richiedono specifiche competenze,
sono ripetitivi e, di fatto, uguali per tutti. La marginalità sembra essere il
comune denominatore delle diverse attività economiche praticate, sono
essenzialmente caratterizzate da precarietà, saltuarietà e forme di reddito
molto frammentate. Si tratta lavori perennemente proiettati nell’oggi, senza
alcuna realistica possibilità di sviluppo futuro. L’immediatezza è la
dimensione caratterizzante la dinamica del lavoro; l’hic et nunc è lo spazio e
il tempo massimamente reale, quello che acquista senso in un gruppo abituato a
una precarietà assoluta, esistenziale prima ancora che lavorativa. La vendita
delle piante, o le altre attività, sono fatte per «guadagnarsi la giornata», «giusto
per comprare un po’ di pane», «per tirare avanti», come più volte è stato ripetuto
durante le interviste. Il ricavo economico di una giornata di lavoro o una
parte di esso, e non solo per via dell’esiguità, difficilmente è destinato al
risparmio. Nulla è accantonato, tutto è consumato nell’immediato. Si
sbaglierebbe a pensare che questo tipo di comportamento sia una caratteristica
peculiare ed esclusiva dei gruppi rom. Come mette in luce, tra gli altri,
Glauco Sanga (1995), anche tra i membri di altri gruppi marginali si
riscontrano comportamenti simili. La condizione di marginalità, imposta o
ricercata che sia, favorisce l’emergere di un modo di vita legato al presente,
dove la brevità e la ripetizione di attività intermittenti costringono a una
condizione di contingenza che difficilmente permette la pianificazione del
tempo e la costruzione di un futuro a medio e lungo termine. È come se
l’esistenza individuale fosse fermata perennemente nel presente. Una situazione
questa che ha condizionato, e sta tuttora condizionando, la vita e le
prospettiva di vita soprattutto delle nuove generazioni che sono nate e
cresciute all’interno del campo sosta.
Il campo delimita spazialmente e
socialmente la vita di chi ci abita. La cesura tra dentro e fuori è netta. Crea
una sorta di limbo nel quale le nuove generazioni vivono, più dei loro genitori
e nonni, le contraddizioni della marginalità e dell’esclusione. I più giovani,
attraverso i messaggi massmediatici, ma anche con il processo di
scolarizzazione, lo scambio con il gruppo dei pari, conoscono un mondo e
abitudini comportamentali profondamente diversi da quelli che esperiscono
all’interno del campo sosta che si configura sempre più come un vero e proprio
ghetto[14]
che ingabbia le loro vite. Un luogo dal quale, come non è difficile capire, la
gente vuole andare via. Un desiderio particolarmente presente nelle aspettative
dei più giovani. Avere la possibilità di studiare, trovare un lavoro, una casa,
degli amici, e, in molti casi, anche un compagno o una compagna di vita,
rigorosamente fuori dal campo, sono aspirazioni che compaiono nella maggioranza
dei racconti che fanno del loro futuro gli under venti.
3. Visibilità e invisibilità dei cittadini
rumeni e bulgari rom a Lecce
Sono 4866, secondo i dati demo.istat.it
(2015), i cittadini romeni residenti nell’intera provincia di Lecce; rappresentano,
come per il resto di Italia, il primo gruppo nazionale per numero di presenze.
I cittadini bulgari sono, in tutto, poco più di un migliaio e quasi la metà
risiede in un solo comune della provincia. Il numero dei cittadini rumeni è
iniziato a crescere dopo il 2002, quando la sanatoria prevista dalla legge
Bossi-Fini (la n. 189 del 2002) ha regolarizzato oltre 700 mila presenza rumene
in tutta Italia. Nella provincia di Lecce, nel 2003 le presenze rumene erano
complessivamente solo 97 (quasi tutte donne, la sanatoria era stata pensata per
le collaboratrici domestiche), solo sei anni dopo però, a seguito dell’ingresso
della Romania in UE, i cittadini rumeni presenti salgono a quota duemila e
inizia ad aumentare anche il numero dei cittadini bulgari (anche la Bulgaria
entra in UE nel 2007). Tra questi cittadini, diverse sono le famiglie e i
singoli di origine rom. La maggior parte sono invisibili, inseriti nel tessuto sociale e urbano dei comuni della
provincia di Lecce. Di solito nascondono, per motivi che non è difficile
immaginare, il loro essere rom, specie nel momento in cui provano ad affittare
una casa o sono alla ricerca di un lavoro.
Sono almeno tre le donne rom che ho
incontrato negli ultimi tempi che lavorano nell’ambito dell’assistenza e cura
delle persone anziane, e tutte e tre mi hanno detto di non aver rivelato al
loro assistito e alle famiglie presso cui lavorano di essere rom, scherzando, una di loro mi ha detto: «In
Italia, per colpa della televisione, è già difficile essere rumena, figurati se
dico di essere rom!». Sono tante le storie come queste che restano nascoste agli
occhi dell’opinione pubblica, che non trovano spazio di visibilità nei racconti
pubblici che riguardano i rom, schiacciati come sono sul sensazionalismo,
l’emergenza, i campi, la repressione e via dicendo. Eppure, le storie di queste
tre donne, sono le storie della maggioranza di cittadini rom oggi residenti in
Italia.
In Italia, come nel resto del mondo, sono
la maggioranza assoluta i cittadini rom che vivono in case, che studiano, che
quotidianamente svolgono i lavori più diversi; una realtà che, fortunatamente,
inizia ad essere raccontata come ha efficacemente fatto la campagna dell’Associazione
21 luglio Rom, cittadini dell’Italia che verrà o, ancora, il documentario di Sergio Panariello Fuori campo.
Anche a Lecce, i cittadini rumeni di origine
rom maggiormente visibili sono quelli che vivono in emergenza abitativa e le
cui condizioni di vita sono fortemente precarie. Sono famiglie che
quotidianamente è possibile vedere praticare il mangel per strada, vicino ai monumenti e alle chiese della città,
nella centralissima piazza Sant’Oronzo, lungo le vie del centro storico solcate
dai turisti e vicino ad alcuni semafori, in particolare nei pressi della
stazione ferroviaria che, da oltre un anno, è divenuta per almeno cinque
famiglie anche il luogo in cui passare la notte.
M. e A. sono una delle famiglie che da
quasi due anni è costretta a vivere per strada. Lei ha trentatré anni, lui
trenta. Vengono da Brasov, la principale città della Transilvania, a circa 170
chilometri da Bucarest. Sono in Italia da quasi sei anni. Hanno tre figli, la
più grande ha diciassette anni, vive in Polonia con il suo compagno, aspetta il
suo primo bambino. M. ha gli occhi pieni di gioia, quando, mostrandomi la foto
della figlia, mi dice che non vede l’ora di abbracciare il suo nipotino. Gli
altri due figli, di quindici e dieci anni, ora vivono in Romania, a casa dei
genitori di M. Riescono a vederli saltuariamente, solo un paio di volte l’anno.
M. e A. non hanno sempre vissuto per
strada. Fino a tre anni fa avevano una casa nel centro storico di Lecce insieme
ai loro tre figli che frequentavano le scuole della città, ed erano felici di
farlo, come ci tiene a sottolineare M. In quella casa ci hanno vissuto finché
hanno potuto pagare l’affitto, fino a quando non hanno perso il lavoro
(muratore lui, lavapiatti lei) che permetteva, con difficoltà, tanto che quando
finivano di lavorare andavano a fare mangel
per poter incrementare il loro scarso reddito, di far fronte alle esigenze
della loro famiglia. Perso il lavoro hanno deciso di riaccompagnare i loro
figli in Romania e ritornare da soli in Italia, finché non avessero trovato un nuovo
lavoro e una casa dove poter tornare a vivere con i figli più piccoli. Dopo due
anni però non sono ancora riusciti a trovare né lavoro, né casa. «C’è crisi!»,
mi ripetono durante le nostre chiacchierate. Ma restano comunque in Italia,
perché hanno un sogno da realizzare, lo stesso che li spinti a migrare:
costruirsi la loro casa a Brasov dove vogliono tornare a vivere appena
possibile. Per mettere i soldi da parte in questi ultimi due anni, tranne
piccoli lavoretti, hanno potuto contare solo sull’attività dell’andare a mangel ,che praticano, oltre che nella
città di Lecce, in altre città della regione e di Italia spostandosi in treno.
Hanno provato a rivolgersi ai servizi sociali comunali, a qualche parrocchia,
ai centri Caritas, ma non sono riusciti ad avere nulla se non pochi viveri e generi
di prima necessità, motivo per cui, dopo aver passato due anni in queste
condizioni, stanno pensando di spostarsi in Francia, dove vive una sorella di
A., e cercare lì quel lavoro che qui non riescono a trovare, almeno così
sperano. Quando chiedo loro quando pensano di partire, mi guardano, si
guardano, ridono e dicono di non saperlo ancora, per adesso la loro priorità è
il nipotino che nascerà ad agosto.
Quella di M. e A, è una storia molto
simile alle storie di tanti altri migranti, di tanti altri cittadini italiani,
colpiti dagli effetti della crisi economica e spinti verso una situazione di
povertà cronica, sempre più diffusa nel nostro paese. Stando ai dati Istat sono
il 5,7% delle famiglie residenti in Italia a vivere e a vivere al di sotto della
soglia di povertà, un dato allarmante ma che evidentemente non basta per
attivare strumenti di tutela da parte dello Stato. L’impegno per implementare i
servizi di welfare non trova spazio nell’odierna agenda politica nazionale e
internazionale, anzi la direzione è un’altra: solo il ragionieristico
contenimento della spesa pubblica dettata dal dogma dell’austerity. Così si continuano a smantellare parti sempre più
consistenti di welfare sospendendo servizi e diritti, colpendo le fasce sociali
più deboli e facendo aumentare cronicamente le sacche dell’esclusione sociale.
La contrazione della spesa sociale è il leitmotiv delle dottrine neoliberiste e
ha trasformato, come ricorda Loïc
Wacquant (1998), in maniera
sempre più drammatica, la guerra alla povertà in una guerra ai poveri.
Vivere per strada, in condizione di
disagio abitativo, come nel caso di M. e A., non è una scelta dovuta a presunte
attitudini culturali ma, nella quasi totalità dei casi, è una conseguenza,
drammatica, dei processi di impoverimento e precarizzazione che colpiscono
fasce sempre crescenti di cittadini, italiani o stranieri, rom o gagi che siano. Per questo, come per gli
altri casi, le risposte da trovare non vanno ricercate in politiche
culturaliste, etniche, in politiche pensate per i rom, i cui effetti in Italia,
e anche nel salento, sono orami noti a tutti, ma in politiche sociali, che
promuovano l’effettivo soddisfacimento di bisogni essenziali come quello della
casa e del lavoro che, è bene ricordarlo, sono anche di quei diritti
fondamentali, il cui godimento aiuta a vivere una vita degna di essere vissuta (Sen, 1999).
Conclusioni
Il caso salentino presentato, pur nella
sua specificità, mi sembra contenga elementi comuni ad altre realtà italiane che
i lettori, sicuramente, non faticheranno a individuare. Le dinamiche
innescatesi sul territorio si iscrivono in dinamiche più generali, tanto nei
casi in cui l’esclusione è determinata istituzionalmente, si pensi alla
situazione dei cittadini rom residenti nel campo sosta Panareo, quanto in quelle situazioni in cui invece, in
assenza di politiche pensate “per i rom”, si sono registrate situazioni che
indubbiamente garantiscono migliori condizioni di vita rispetto a chi vive nei
campi, il riferimento è alla situazione dei discendenti delle famiglie rom
salentine così come pure ai cittadini rom rumeni e bulgari mimetizzati. Discorso diverso quello relativo alle condizioni di
vita dei cittadini rumeni rom che vivono in disagio abitativo che, come la
storia della famiglia di M. mostra, non hanno nulla a che vedere con presunte
caratteristiche culturali, ma sono, semmai, una conseguenza della crisi
economica e della conseguente esclusione sociale che continua ad aumentare
pericolosamente. Sono, in primo luogo, una questione
di politica sociale (Brazzoduro, 1995) e come tale devono essere affrontati. Affrontare
l’esclusione sociale e pianificare percorsi di tutela e sostegno alle famiglie
che ne sono vittime, è un interesse collettivo di tutta la società da raggiungere
attraverso un impegno che non può che essere politico e istituzionale, capace
di affrontare, nelle sedi opportune, le diverse tematiche: scuola, lavoro,
abitazione e, per i cittadini stranieri, l’accesso alla cittadinanza.
Rispetto alla questione dei campi c’è poco da
aggiungere a quello che l’evidenza empirica e la letteratura hanno assodato da
almeno un ventennio. I campi costruiti dalle istituzioni sono dei ghetti che
producono esclusione, risultato di un’urbanistica
del disprezzo esattamente come lo sono altri ghetti istituzionali che sono
sorti in giro per l’Italia, da nord a sud, nelle cosiddette zone 167 destinate
all’edilizia residenziale popolare.
La forma campo nella sua dimensione
strutturale si configura come un dispositivo attraverso cui si produce una
differenza (Foucault, 2005); è un luogo che incombe sui soggetti fuori posto;
segnala una soglia, ratifica un tipo di esclusione che va oltre ogni forma di
marginalità sociale. Da un punto di vista sociologico, i campi rom designano
uno spazio che si colloca oltre l’esclusione e la marginalità sociale (Rahola,
2003), assommano segregazione spaziale, abitativa, sociale, culturale,
simbolica e giuridica; come direbbe Agamben (1995), rappresentano la
materializzazione di uno stato di eccezione divenuto permanente. Quando i comuni
mettono a disposizione aree più o meno attrezzate destinate ai campi, la
logica, spesso inconsapevole, che li ispira è quella di proteggere
simbolicamente il resto del territorio (Rivera, 2003) e producono, tra gli
altri effetti, quello di espellere dalla comune umanità una classe di
individui, reificandoli ed imputando loro dei tratti comportamentali
decontestualizzati, astorici, omogenei, fissi, istituendo un contesto
biopolitico in cui la valutazione dei soggetti non è riferita a singole azioni
individuali, ma alla loro presunta appartenenza ad una categoria etnica (Vitale, 2008). Le
dinamiche interne a questi luoghi, le modalità di accesso ai servizi e ai
diritti, la stessa possibilità di comunicazione con l’esterno sono elementi che
incidono profondamente sulle aspettative e sulla mortificazione del sé (Goffman, 2001) di chi ci vive dentro.
Sulla necessità di supere queste luoghi e
le logiche che li sottendono c’è poco da discutere, semmai è importante
individuare il modo per farlo attraverso una
programmazione politica partecipata che abbia una prospettiva di lungo termine,
che coinvolga, sin dalla fase di ideazione, i diretti interessati individuando,
in maniera chiara e trasparente, le forme e le modalità di partecipazione in
rispetto dei principi di democraticità per evitare che la partecipazione resti solo
un termine vuoto che, nei casi peggiori, serva a ratificare e legittimare
decisioni istituzionali già prese.
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[1] Archivio di Stato
Napoli, Regia Camera della Sommaria, Numerazione dei fuochi, Frammenti non
identificati, 353, citato in Chavarria (2007).
[3] Sono diversi i
salentini di origine rom oggi protagonisti nel campo della cultura, dell’arte,
degli affari, dell’università.
[4] Si pensi
all’istituzione delle classi speciali “Lacio Drom”.
[5] I provvedimenti che a
partire dagli anni Ottanta le regioni italiane adottano per istituire i campi e
le aree sosta.
[6]Sono quelli gli anni in
cui il fenomeno migratorio, nel Salento, inizia ad assumere una consistenza
numerica significativa (Perrone, 2007).
[7] È la conseguenza delle
“politiche d’integrazione” seguite dalla maggioranza dei paesi dell’Est Europa,
dove li troviamo addetti in lavori umili, come quello di netturbini (Perrone,
1996).
[8] Quest’attività non era
esercitata in patria. Per approfondimenti sul tema del mangel, si vedano, tra gli altri, i
lavori di Williams (1986) e Tauber (2000).
[9] Ancora oggi, nonostante
i rom del campo Panareo dal 2008 abbiano individuato, attraverso democratiche
elezioni indette dagli stessi rom e riconosciute ufficialmente dal Comune di
Lecce, due portavoce (un uomo e una donna), i rom e i loro portavoce non sono
mai stata consultati durante nessuna fase di ideazione o pianificazione di
specifiche progettualità rivolte ai rom del Panareo.
[10] Nel senso che è stata
edificata ed allestita secondo specifiche progettualità edilizie frutto di
interventi istituzionali.
[11] Per maggiori
informazioni su quest’aspetto rimando a Ciniero (2014).
[12] La sola forma di
collegamento pubblico del campo con la città di Lecce è rappresentata da un
autobus che durante il periodo scolastico accompagna i ragazzi rom in età di
obbligo formativo nelle scuole della città.
[13] Si tratta per lo più di
lavoro autonomo, in particolare la vendita porta a porta di piante e fiori.
Diversi sono anche i soggetti che svolgono lavori dipendenti, soprattutto tra i
più giovani. Per approfondimenti riguardanti la condizione lavorativa dei rom del
Panareo, si veda Ciniero (2013).
[14] Per un’analisi delle
dinamiche che i diversi ghetti innescano sulla vita dei soggetti che li vivono
riferita al territorio salentino, si rimanda Ciniero, Papa (2016).
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