L’agro centro-meridionale della provincia
di Lecce, e in particolare la cittadina di Nardò, rappresenta ormai da oltre
vent’anni un tassello importante ed emblematico delle dinamiche politiche,
sociali ed economiche che attraversano e danno forma al lavoro agricolo
stagionale nella gran parte dei paesi dell’aria euro-mediterranea. Le
condizioni di vita e di lavoro dei braccianti in questa zona, sebbene da più
parti deprecate, sembrano essere immutabili. Pochi
sono gli elementi che si sono modificati nel corso degli anni, tra questi, la
composizione sociale dei braccianti avvicendatesi sul territorio e che
discende, a sua volta, essenzialmente, da tre fattori: quelli produttivi (il
cambio della tipologia dei prodotti agricoli coltivati e la modificazione degli
ettari coltura destinati alla coltivazione, che ha richiamato un numero
maggiore di manodopera); quelli economici più generali (la crisi degli ultimi
anni e i licenziamenti a essa connessi, che hanno spinto verso il settore
agricolo soggetti prima impiegati nel settore industriale e in quello dei
servizi, di sovente nelle città del centro-nord Italia); e, ancora, quelli
legati ai cambiamenti intervenuti sul versante delle dinamiche migratorie,
soprattutto dal 2011, quando – a seguito delle cosiddette primavere arabe e
dell’intervento armato in Libia – è mutato il panorama degli arrivi e delle
presenze dei cittadini stranieri sul territorio dove è aumentato il numero dei
cittadini richiedenti asilo e/o protezione umanitaria che, anche in conseguenza
delle politiche e delle modalità di accoglienza loro riservate, sono divenuti
un importante bacino di reclutamento di manodopera per la raccolta stagionale.
Se la
modificazione della composizione sociale della forza lavoro cambia nel tempo, a
rimanere quasi del tutto invariati sono invece altri due elementi fondamentali
alla strutturazione del contesto socio-economico e socio-politico nel quale il
lavoro bracciantile prende forma: il ruolo e le modalità di intervento delle
istituzioni politiche (locali e non) rispetto al fenomeno e le modalità di
intermediazione lavorativa tra domanda e offerta di lavoro garantita dal
meccanismo del caporalato.
Le istituzioni
locali, fino al 2009, non hanno predisposto nemmeno misure relative alla
sistemazione alloggiativa dei braccianti, né tali misure sono state poste in
essere dai datori di lavoro. Nel vuoto di interventi istituzionali, i
braccianti erano di fatto (come, in parte, continuano a essere) delle presenze
sconosciute, dimenticate e quasi invisibili sul territorio, costretti a vivere
e ad arrangiarsi autonomamente in stabili lasciati all’abbandono o accampati
direttamente sui terreni agricoli. È solo nel 2010 che la Provincia di Lecce e
il Comune di Nardò, in collaborazione con due realtà associative (Finis
Terrae onlus e Brigate di Solidarietà), hanno
approntato un sistema di prima accoglienza e alloggio per i lavoratori. Questo
primo campo, sorto in una masseria denominata Boncuri, sarà funzionante solo
per due anni e già dal 2012 non verrà più utilizzato per l’accoglienza dei
braccianti individuando altre soluzioni alloggiative che però non metteranno in
discussione la forma del campo. Ad oggi, la maggioranza dei lavoratori continua
a vivere accampandosi direttamente su terreni agricoli o in ruderi abbandonati
nelle campagne: vecchi casolari o capanni per gli attrezzi. Il tutto, in
assenza di ogni più elementare servizio: da quelli igienici e sanitari ai
trasporti. Insomma, un vero e proprio ghetto, che costringe i suoi abitanti in
una dimensione sospesa e chiusa dentro le dinamiche tipiche di questi luoghi,
supportati solo dal sostegno alcuni cittadini e dall’intervento di alcune
realtà associative: la Caritas locale e l’associazione Diritti a Sud.
L’assenza
di servizi che dovrebbero per legge essere garantiti dalle aziende agricole e
dal sistema istituzionale, ha creato le condizioni principali nelle quali si è
consolidato il sistema di intermediazione informale tra domanda e offerta di
lavoro garantita dal meccanismo del caporalato, tanto da renderlo, ancor oggi,
la modalità principalmente, se non esclusivamente, utilizzata dalle aziende per
il reclutamento di manodopera stagionale. Il caporalato, proprio come nel
passato, continua a essere, sotto diverse forme, un elemento strutturale
all’organizzazione del lavoro agricolo, un servizio
che l’economia informale fornisce alle imprese per mantenere basso il costo del
lavoro e al contempo controllare e disciplinare la forza lavoro, in particolare
i segmenti dotati di minore capacità e forza contrattuale.
Il lavoro nero, il sistema del
caporalato, le sistemazioni alloggiative, che con un eufemismo si possono
definire precarie, erano e sono considerate dai lavoratori la norma.
Difficilmente sono state messe in discussione, e anche quando ciò è avvenuto,
si è trattato di conflitti individuali che non si sono mai trasformati in
pratiche di lotta organizzata. È solo nel luglio
del 2011 che qualcosa è sembrato cambiare, quando un gruppo di braccianti hanno
dato vita ad un vero e proprio sciopero che, per lo meno nella fase inziale, è
stato completamente autorganizzato e autogestito dai lavoratori.
Lo
sciopero scoppia il 29 luglio, quando un gruppo di braccanti ha deciso di non assecondare
la richiesta del proprio caporale che chiedeva loro di prestare lavoro
aggiuntivo senza però ricevere alcun incremento retributivo. Già dal giorno
dopo inizieranno a partecipare ai momenti assembleari indetti dai lavoratori le
diverse associazioni antirazziste e di volontariato del territorio e la CGIL.
Le associazioni, così come pure il sindacato, durante tutta la fase dello
sciopero, si limitano ad attività di supporto (come la raccolta di viveri e
denaro da destinare alla cassa di resistenza che viene istituita per i
braccianti in sciopero) o, nel caso della CGIL, all’organizzazione di un
presidio e di alcuni incontri in Prefettura per permettere il confronto tra i
lavoratori, le parti sociali e le istituzioni locali.
Sin
da subito lo sciopero ha goduto di una significativa visibilità mediatica
nazionale e internazionale che, se da un lato, ne ha amplificato la portata,
dall’altro, ne ha però occultato alcune dinamiche e rivendicazioni. Il racconto
mediatico, infatti, si è concentrato più sulle condizioni di vita dei
braccianti e sul ruolo di uno dei leader dello sciopero Yvan Sagnet[1], che sulle rivendicazioni dei lavoratori che sono quasi
sparite dallo spazio di visibilità offerto dai media.
Si è trattato di mobilitazioni
nelle quali il lavoro, in quanto tale, ha avuto un’assoluta centralità, non
casualmente tra l’altro, visto che il lavoro dei migranti, proprio perché
maggiormente precarizzato, diviene un elemento di tensione costante all’interno
del lavoro contemporaneo. Tra le principali rivendicazioni sindacali di quello
sciopero: il superamento del sistema del caporalato e la richiesta di trattare
direttamente con i datori di lavoro, l’innalzamento dei livelli salariali, il
rifiuto del lavoro a cottimo, la regolarizzazione del rapporto lavorativo,
l’emersione dal lavoro nero e il riconoscimento di tutele e garanzie
previdenziali. Tutte richieste però che sono state,
di fatto, lasciate cadere nel vuoto restando fino ad oggi prive di ascolto e
riscontro da parte delle Istituzioni.
Al netto di ogni considerazione
possibile sull’efficacia dello sciopero, l’esperienza del 2011 ha sicuramente
sortito alcuni importanti risultati, anche se forse più simbolici che
sostanziali: ha, da un lato, favorito la presa di coscienza e la capacità di
organizzarsi dei lavoratori e, dall’altro, aperto un dibattito pubblico più
ampio sul tema di quanto avvenuto fino allora.
Spente le luci dei riflettori
mediatici però, nonostante dopo il 2011 vengano recepite dall’ordinamento
giuridico italiano una serie di provvedimenti legislativi internazionali[2] e nazionali[3]
potenzialmente in grado di contrastare il lavoro nero e il meccanismo del
caporalato, Nardò, già dall’anno seguente, è ripiombata nella “normale”
sospensione dei diritti: il ghetto continua ad esistere, il lavoro nero
continua a rappresentare la modalità prevalente di impiego e il caporalato
continua ad essere il meccanismo abituale per l’intermediazione tra domanda e
offerta di lavoro. In più, anche a causa del quasi totale disinteresse istituzionale,
è percezione diffusa tra i braccianti, soprattutto tra chi vi aveva preso
parte, che lo sciopero non sia servito a nulla, visto che le loro condizioni di
vita e di lavoro a distanza di quattro anni, non possono certo dirsi
migliorate. Anche il rapporto con le organizzazioni sindacali appare
peggiorato, non sono pochi i lavoratori che le percepiscono come lontane e
incapaci di rappresentare i loro interessi. D'altronde, la crisi di
rappresentanza del sindacato non è certo cosa nuova, è almeno un ventennio che
se ne discute, né è prerogativa del solo lavoro agricolo.
Il lavoro agricolo, specie quello
stagionale, si situa al centro delle molteplici contraddizioni che
caratterizzano la contemporaneità in quanto somma ed estremizza molte delle
dinamiche che investono i mercati del lavoro e, più in generale, i sistemi
produttivi dei paesi capitalisticamente avanzati. Tra le principali
contraddizioni che il caso di Nardò esemplifica bene ci sono quelle relative ai
processi di precarizzazione della condizione lavorativa e il conseguente
depauperamento del potere contrattuale dei lavoratori in generale e della forza
lavoro migrante in particolare; quelle relative alle ricadute sul piano
economico delle politiche migratorie con le quali, sia a livello internazionale
che nazionale, si disciplinano i movimenti migratori; quelle relative ai
processi di esclusione sociale che determinano l’invisibilità agli occhi
dell’opinione pubblica dei ghetti nei quali i lavoratori svolgono buona parte
della loro vita; quelle innescate dalle filiere produttive e dai processi
distributivi dei prodotti agricoli. Tutte queste contraddizioni contribuiscono
a fare del lavoro agricolo un settore di ripiego nel quale trova occupazione,
quasi esclusivamente, forza lavoro senza alcuna reale alternativa
occupazionale. Il lavoro agricolo stagionale diviene quindi una sorta di
microcosmo sociale in cui si intersecano e si condizionano vicendevolmente
dinamiche strettamente lavorative e più generali dinamiche sociali la cui messa
in discussione non può che partire dal rispetto dei diritti, potenziando gli
strumenti di tutela dei diritti dei lavoratori e invertendo quindi la tendenza
in atto, tanto a livello nazionale che internazionale, che invece seguita a
mortificare il corpus di diritti sociali e lavorativi.
[1] Proprio in questi giorni,
Yvan Sagnet e Leonardo Palmisano sono vittime di vili minacce per il loro
lavoro e la realtà denunciata nel loro testo Getto Italia edito dalla Fandango
(http://www.amnesty.it/minacce-sagnet-palmisano-solidarieta-di-amnesty-international-italia).
[2] Come la Direttiva
2009/52/CE del 2009 recepita il 16 luglio del 2012. Normativa che
introduce norme minime relative a
sanzioni e a provvedimenti nei
confronti di datori
di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il
cui soggiorno è irregolare.
[3] Il
Decreto-legge 138/2011 che all’articolo 12 introduce la pena della
reclusione per chi effettua illegalmente intermediazione lavorativa.
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