Antonio Ciniero
Premessa: la gestione economica delle
migrazioni
L’epoca contemporanea conosce una
mobilità umana mai sperimentata prima nella storia, sono più di 200 milioni le
persone in transito nel pianeta (232 milioni nel 2013 secondo l’Onu), 34
milioni nella sola Unione Europea (Eurostat). Cifre impressionati che danno
l’idea della complessità e della porta di un fenomeno che nessun proibizionismo, barriera o politiche repressive potrà
fermare. Chi intraprende l’esperienza
migratoria lo fa per ricercare migliori condizioni di vita, per avere
un’opportunità che gli pare negata nel suo paese ma anche, e questo avviene
sempre più spesso negli ultimi anni, perché è costretto alla fuga da guerre e
conflitti. Nel 2014, i migranti forzati hanno raggiunto la cifra record di
oltre 60 milioni nel mondo (dati UNHCR) e di 620 mila in Europa[1]
(Eurostat) quasi un terzo degli ingressi complessivi. Questi spostamenti
contribuiscono a mettere a nudo il re,
esplicitano l’insostenibilità dell’attale modello di sviluppo, ne mostrano la
forte sperequazione e le abissali diseguaglianze e, al contempo, si configurano
come una risposta, individuale e sociale, al processo di impoverimento che
interessa aree geografiche sempre più estese del pianeta[2];
ne deriva che prospettare soluzioni è cosa ardua; per risposte realistiche alla
complessità del problema si avrebbe bisogno di politiche sopranazionali, oggi
difficilmente attivabili, fermo restando gli attuali rapporti di forza che
dominano il pianeta. Risposte che superino i modi fallimentari con cui fino ad
oggi i paesi occidentali, e quelli europei in particolare, si sono approcciati
al fenomeno.
Negli ultimi
due secoli, i paesi dell’Unione Europea hanno vissuto tre importanti fasi
migratorie: una prima fase, tra la fine dell’Ottocento e i primi trent’anni del
Novecento, con le grandi emigrazioni
transoceaniche verso il nuovo mondo,
movimenti di popolazione che hanno coinvolto la maggioranza dei paesi europei;
una seconda fase, che ha inizio con il secondo dopoguerra e dura fino ai primi
anni Settanta, in cui si hanno consistenti flussi intraeuropei che si
dirigevano dai paesi dell’Europa del sud, meno industrializzati, verso quelli
del centro e nord Europa, più industrializzati; una terza fase, infine, che, a
partire dalla seconda metà degli anni Settanta, cambia nuovamente lo scenario
migratorio europeo, in questo periodo diventano meta dei flussi quei paesi
dell’Europa mediterranea che erano stati fino a qualche tempo prima
interessati, quasi esclusivamente, dal fenomeno emigratorio. Le due ultime fasi
sono diverse sotto molti aspetti.
Fino agli anni Settanta del Novecento, i movimenti migratori avvenivano nel solco di
politiche che favorivano l’importazione di forza lavoro aggiuntiva richiesta
per sostenere il boom economico innescato dalla ricostruzione postbellica e
dall’espansione del processo di industrializzazione. In quel periodo storico,
il raccordo tra i paesi di partenza e di destinazione dei migranti era
garantito o dagli ex-legami coloniali, come nel caso della Francia e del Regno
Unito, o dagli accordi bilaterali siglati dai governi nazionali per garantirsi
fornitura di manodopera; questa seconda via è stata seguita principalmente dalla
Germania[3], dal
Belgio e dalla Svizzera. Protagonisti dei flussi in questi anni sono perlopiù
uomini celibi o comunque senza la loro famiglia al seguito, giovani, in buona
salute, provenienti dalle aree maggiormente sviluppate
dei paesi economicamente depressi, occupati nei settori centrali della
produzione, che ricercavano, con il loro spostamento migratorio, la possibilità
di un riscatto sociale ed economico per sé e per le loro famiglie rimaste in
patria. In questo periodo, il
migrante, seppur in maniera contraddittoria, incarnava lo spirito
d’intraprendenza richiesto dal sistema capitalistico[4],
era un pioniere assoggettato però a
diverse forma di controllo; i cittadini stranieri non godevano infatti di un
pieno riconoscimento e di parità di diritti con i cittadini autoctoni, erano
considerati in primo luogo forza-lavoro, braccia,
soggetti la cui presenza doveva essere resa funzionale alle esigenze economiche
e produttive degli stati.
Oggi, a questo riconoscimento parziale
dei diritti, si aggiunge un processo di criminalizzazione e inferiorizzazione dei
cittadini stranieri che non ha pari nella storia recente dei paesi destinatari
dei flussi migratori. Le migrazioni sono sempre più connotate negativamente e
presentate come antagoniste al nuovo ordine economico, politico e sociale. Di
fronte alla presenza di nuovi cittadini le società rispondono – sostanzialmente
– in due modi: o con il tentativo di assimilazione di coloro i quali sono
ritenuti utili e buoni attraverso un processo che tende a cancellare una diversità
che crea ansia e paura; oppure con l’esclusione, allontanando fisicamente e
socialmente lo straniero, facendolo sparire dalla stessa percezione e orizzonte
sociale attraverso dispositivi e meccanismi legislativi che creano un perenne stato di eccezione[5].
Si pensi alle leggi che mantengono artatamente in condizione d’irregolarità
amministrativa una massa consistente di cittadini stranieri e ai luoghi di
sospensione dei diritti, come lo sono i Centri di Identificazione ed
Espulsione, in cui sono rinchiusi un numero sempre più grande di cittadini per
il solo fatto di essere stranieri, colpevoli di andare alla ricerca di pane e libertà. Perché avviene tutto
ciò? Come mai nel periodo contemporaneo si assiste a una criminalizzazione
senza precedenti della figura del migrante? Per quali motivi nei discorsi
pubblici è perennemente presente la necessità di ridurre e controllare le
migrazioni? Perché le leggi in materia di migrazione sono sempre più
restrittive mentre, contemporaneamente, il numero di lavoratori stranieri
impiegati - anche irregolarmente - in molti settori economici non diminuisce
per nulla, anzi, in alcuni settori, addirittura aumenta?
L’orientamento dei paesi ricchi, con le
politiche di chiusura più o meno rigide, non sono in contraddizione, ma lineari
alla funzione che i migranti devono avere su un mercato del lavoro dominato da
idee liberiste: manodopera a basso costo,
ricattabile, flessibile e facilmente
espellibile. Ciò che sembrerebbe una contraddizione - e in netto contrasto
con una cultura democratica e solidale - in verità è una risposta,
economicamente funzionale, atta a soddisfare la persistenza di una domanda di
lavoro inappagata dall’offerta interna. Le politiche di chiusura delle
frontiere, la restrizione dei canali di ingresso regolare, la precarizzazione
della condizione giuridica degli stranieri e il mancato riconoscimento dei
diritti di cittadinanza, fanno sì che si instauri una dialettica tra stato e
mercato, in cui i processi di clandestinizzazione
ed i fenomeni di razzismo istituzionale, consegnano agli agenti economici un utile
strumento di svalorizzazione della forza lavoro, una situazione utilissima a
chi domanda lavoro perché mette a loro disposizione una manodopera priva di
diritti da sottoremunerare ed utilizzare per incrementare i profitti.
Il legame tra politiche economiche e
politiche migratorie è sempre stato molto stretto[6].
Se si guarda al modo in cui gli stati hanno approcciato e continuano ad
approcciarsi ai fenomeni migratori, non si fatica a riconoscervi una specifica
modalità di gestione della forza lavoro, un tentativo di adattarla alle
esigenze economiche e produttive espresse dai diversi sistemi economici. Una
modalità che, in ultima analisi, tendeva e tende a riproporre la vecchia logica
del divide et impera, condizione essenziale per un sistema economico che
si regge sull’esclusione dal godimento dei propri benefici di una massa enorme
di soggetti che, con il loro lavoro, permettono però all’attuale sistema
economico di continuare a sopravvivere. Le migrazioni, come ha scritto
Abdelmalek Sayad[7], hanno
una importante funzione paradigmatica - oggi forse anche più di quanto avveniva
in passato - sono un’occasione
privilegiata per rendere palese ciò che è latente nella costruzione e nel
funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per
rilevare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di
innocenza o ignoranza sociale, per portare alla luce ciò che abitualmente è
nascosto nell’inconscio sociale ed è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo
stato di segreto o di non pensato sociale. I migranti oggi, a causa
dello speciale regime giuridico cui sono sottoposti, vivono in maniera più
accentuata e drammatica le medesime condizioni di precarietà, esistenziale
prima che lavorativa, cui la maggioranza di tutti i cittadini è costretta da un
sistema politico ed economico che impedisce a quote sempre più ampie di
soggetti l’accesso ai diritti essenziali di ogni essere umano.
Le ricadute sociali ed economiche della normativa
europea in materia di migrazioni
Nel corso degli ultimi venticinque anni,
l'Unione Europea ha elaborato politiche migratorie sempre più incentrate sugli
aspetti repressivi e gli orientamenti securitari. La volontà dichiarata di
contrastare l’immigrazione irregolare è divenuta il leitmotiv della
maggior parte dei discorsi pubblici (politici e massmediatici) e si è espressa,
per lo più, mediante l’elaborazione di strumenti repressivi quali
l’irrigidimento e l’esternalizzazione dei controlli alle frontiere o il
rafforzamento delle garanzie d’esecutività per le espulsioni, lasciando nel
dimenticatoio la promozione dei percorsi di cittadinanza. Finora
l’armonizzazione normativa tra gli Stati membri è avvenuta quasi esclusivamente
in negativo, con la diffusione di
pratiche repressive e di standard di
diritti al ribasso. La stragrande maggioranza delle iniziative è andata nella
direzione di assicurare la chiusura delle frontiere, nell’infondata illusione
di bloccare i flussi migratori, mentre, in concreto, poco è stato fatto per
promuovere la libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni stato,
così come prevede, tra l’altro, l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
La matrice politica e normativa
dell’approccio europeo ai fenomeni migratori, come è noto, è da ricercare negli
accordi di Schengen che, nei fatti, hanno creato le precondizioni per un doppio
regime di circolazione: da un lato, quello riservato alle merci e ai cittadini
europei, dall’altro, quello riservato ai cittadini non europei; uno spazio
geografico e politico permeabile per i movimenti delle merci e dei cittadini
europei ma sempre meno libero per i movimenti degli esseri umani provenienti
dai paesi esterni all’UE. Una situazione questa che, da un punto di vista economico,
contribuisce a mantenere alti gli squilibri tra tenori di vita anche
all’interno di aree geografiche contigue all’Europa, funzionali all’importazione
di manodopera a basso prezzo. È l’Europa-fortezza: sempre più libera al suo
interno ma sempre più impenetrabile (per lo meno legalmente) dall’esterno,
tanto per i migranti economici quanto per i richiedenti asilo. Anche la
legislazione europea riguardante il diritto d’asilo non è infatti scevra da
contraddizioni e ricadute sociali negative. A prescindere dai continui
dibattiti che periodicamente attraversano l’Europa quando una presunta
emergenza è lanciata e dalle conseguenze che questi innescano (la triste
cronaca di quest’ultimo periodo e il tentativo di costruzione di anacronistici
muri sono alcuni degli esempi), già l’impostazione di fondo dell’intera
legislazione in materia di asilo crea enormi disagi e spesso pregiudica
pesantemente la riuscita del progetto migratorio dei richiedenti asilo
nonostante l’ampia tutela garantita dalle convenzioni internazionali, la Convenzione
di Ginevra in primis. Si pensi al
cosiddetto principio del primo ingresso sancito della Convenzione di Dublino e
ribadito dall’applicazione del regolamento CE 343/03 Dublino II, che, di fatto,
negando ai soggetti la libertà di scegliere dove stabilirsi, di raggiungere il
posto nel quale potrebbero godere di tutta una serie di supporti, da quelli
sociali e parentali fino a quelli economici e politici, invece di tutelarli ne
favorisce l’esclusione. Così come gli accordi di Schengen, anche le leggi
comunitarie in materia di asilo hanno ricadute sociali ed economiche che
condizionano pesantemente la vita delle persone. Un sistema che ignora, o finge
di ignorare, le reali dinamiche che favoriscono i processi di inclusione
sociale, non può che avere come conseguenza quella di assoggettare un gran
numero di soggetti nei paesi di arrivo a posizioni socio-economiche
caratterizzate da forte debolezza e ricattabilità. Non è affatto casuale che in
Italia (ma la situazione è simile anche in Spagna e in Grecia), siano
soprattutto i richiedenti asilo e i rifugiati ad essere impiegati
irregolarmente e sottoposti a regimi di sfruttamento lavorativo
paraschiavistico in particolare nel settore della raccolta agricola stagionale[8].
Nella normativa comunitaria
sull’immigrazione e sull’asilo sono presenti in modo evidente due anime opposte
tra loro: sicurezza contro inclusione. Altrettanto evidenti
appaiono le diverse velocità a cui viaggiano i due piani: progressiva e rapida
armonizzazione nella repressione delle irregolarità migratorie; lenta e
frammentata elaborazione di una base di regole comuni per favorire
l’immigrazione regolare. Anche finanziariamente si sostengono più le politiche
repressive e di controllo alle frontiere che le politiche sociali volte a
garantire l’inclusione dei cittadini migranti e le conseguenze sono sotto gli
occhi di tutti.
Nel vuoto della politica istituzionale,
il tema delle migrazioni e dei diritti dei cittadini migranti è sparito dalle
battaglie dei partiti. È rimasto solo nelle rivendicazioni di qualche leader
desideroso di fare scalpore e guadagnarsi voti con la demagogia della crociata
contro gli invasori stranieri.
Vent’anni di approccio emergenziale e securitario hanno performato il senso comune della gente creando una falsa
contrapposizione tra migranti e autoctoni, facendo dei cittadini stranieri un
facile capro espiatorio su cui
scaricare surrettiziamente le tensioni sociali interne alle società. In questo
scenario, la battaglia per i diritti dei cittadini migranti è, in primo luogo,
una battaglia per i diritti di tutti, una battaglia intrecciata intrinsecamente
con la questione dell’uguaglianza sociale e della libertà che non è più
possibile continuare ad ignorare, soprattutto a sinistra.
Possibili itinerari politici…
Le migrazioni si situano al centro delle molteplici
contraddizioni messe in moto dal processo di globalizzazione, pongono
importanti sfide alle nostre consolidate visioni del mondo, chiamano in causa
la necessità di ridefinire alcuni aspetti dei sistemi sociali ed economici in
direzione di un allargamento della fruizione di servizi e diritti da parte di
tutti. Dare risposte praticabili e democratiche alle sollecitazioni che le
presenze dei nuovi cittadini pongono alle società di destinazione vuol dire, in
primo luogo, mettere in discussione le modalità con le quali sino ad oggi si è
garantita la redistribuzione delle risorse e l’accesso ai diritti di
cittadinanza. Il modo con cui ci si approccia ai fenomeni migratori sono quindi
un importante banco di prova su cui poter misurare la democraticità delle istituzioni
e delle scelte politiche di un paese.
Per dare risposte democratiche alle
questioni politiche, economiche e sociali poste dalla presenza dei cittadini
migranti è essenziale superare la logia dell’emergenza ed emanciparsi dalla filosofia
dell’ordine pubblico. È necessario partire da un ripensamento radicale
delle politiche migratorie, capovolgere la logica securtaria con cui ci si è
approcciati alle migrazioni a favore di una logica realmente inclusiva, che
muova verso la prospettiva di un riconoscimento di uguaglianza e pari
opportunità. È essenziale riformulare le procedure di ingresso sui territori
nazionali, rendendole più semplici. È pertanto auspicabile l’apertura di un
dibattito concreto sulla possibilità di eliminare, o quantomeno rivedere
drasticamente, il concetto di frontiere chiuse e selettive. Concetto che
peraltro appare in netta contraddizione con i principi liberali e di
razionalità di cui l’Europa storicamente si è fatta portatrice. Diversamente i
flussi migratori saranno costretti alle vie illegali, com’è avvenuto in tutti
questi anni. Con la normativa vigente i cittadini stranieri, specie nei paesi
dell’Europa mediterranea, in Italia in particolare, passano con estrema
facilità dalla posizione regolare a quella irregolare, con scarsissime
possibilità di un percorso inverso. E’ interesse di tutta la società, in primis dei migranti, la condizione di
regolarità sul territorio; perciò, in presenza di determinati requisiti, sono
necessarie a regime forme di regolarizzazione permanente. Per quanto concerne
la popolazione rifugiata la prima iniziativa deve tendere alla salvaguardia
dell’incolumità degli attori. Le proposte in merito sono ben note: corridoi
umanitari e permesso (di soggiorno europeo) a risiedere nei paesi scelti dagli
interessati.
L’obiettivo prioritario deve essere
l’inclusione dei nuovi cittadini, e le garanzie di stabilità sul territorio
devono essere viste nella dimensione della reciproca convenienza. Si deve porre
fine al percorso ad ostacoli a cui sono sottoposti i cittadini stranieri e si
deve iniziare un percorso dei diritti che porti a forme di cittadinanza,
che sono anch’esse da ridefinire. Il binomio inscindibile, nazionalità-cittadinanza,
alla base dei conflitti tra nativi e immigrati, è una delle forme del razzismo
moderno: il razzismo del piccolo uomo
bianco, per dirla con Gallissot. Bisognerebbe quindi ripensare il sistema
attraverso cui è possibile accedere alla cittadinanza. Nel quadro
internazionale che caratterizza l’attuale momento storico, se si vogliono
effettivamente rendere praticabili le convenzioni che sanciscono i Diritti
dell’uomo non si può più postulare il legame tra nazionalità e cittadinanza come
concepito fin ora. La cittadinanza europea ad esempio, così come è definita dal
trattato di Maastricht, si presenta come un meccanismo che include solo
determinate popolazioni, storicamente presenti nello spazio europeo,
escludendone altre che in maggior parte hanno contribuito e contribuiscono
ancora allo sviluppo della società civile nel nuovo spazio politico. Gli
stranieri, all’interno di questo quadro legislativo, diventano cittadini di seconda
classe, stigmatizzati a causa delle loro origini nazionali e delle
caratteristiche presupposte delle loro culture e continuamente sottoposti a
sorveglianza per la loro entrata o uscita dal territorio nazionale.
L’alternativa che si profila a questo sistema di apartheid di fatto è
l’istituzione di una cittadinanza fondata sulla residenza, una cittadinanza
aperta e tendenzialmente transnazionale, una cittadinanza non più intesa come
emanazione di un’istanza superiore (lo stato o la nazione), ma come frutto di
una convenzione tra cittadini.
Quest’insieme di scelte, sebbene
abbozzate, possono rappresentare un tentativo di rottura culturale con il
presente e con il passato, se si intrecciano con una nuova idea critica dello
sviluppo e se, mettendo in gioco l’attuale distribuzione e accesso alle risorse
disponibili del pianeta, si ipotizza una nuova redistribuzione della ricchezza
del mondo. Qualcosa che, con troppa leggerezza, si continua a sottovalutare. Come
ricordava Jean-Jacques Rousseau «Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la
terra non è di nessuno, siete perduti!».
[1] A partire dal 2011, i dati relativi ai flussi
migratori diretti verso l’Unione Europea registrano una crescita sistematica
del peso del numero dei migranti forzati: sono stati 300 mila nel 2011, 332
mila nel 2012 e 434 mila nel 2013.
[2] Indirettamente i migranti rimediano, almeno in parte,
alle disparità economiche tra i diversi paesi con le loro rimesse. Secondo i
dati della Banca di Italia e della Banca Mondiale, sono 436 i miliardi di
dollari inviati verso i paesi in via di sviluppo nel 2014 a livello mondiale
(con un aumento annuale del 4,4%), di cui 5,3 miliardi di euro dall’Italia.
[3] La Germania è
tra i pochi paesi europei che ha declinato la sua politica migratoria in chiave
esplicitamente economica, nel senso che il cittadino immigrato era riconosciuto
(fino al 2001) solo in quanto gastarbeiter, lavoratore temporaneamente presente sul
territorio nazionale.
[4] Cfr. Perrone L., 2005 (2008), Da
straniero a Clandestino. Lo straniero nell’immaginario sociologico occidentale,
Napoli: Liguori
Editore.
[5] Agamben
G., 2003, Lo Stato di Eccezione,
Torino: Bollati Boringhieri.
[6] Cfr., tra gli altri, Basso P., Perocco
F., 2003, a cura di, Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo,
lotte. Franco Angeli, Milano; Ciniero A., 2013, Economia flessibile e vite precarie. Lavoro e migrazioni nel racconto
dei cittadini stranieri, Liguori: Napoli.
[7] Sayad
A., 2002 La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze
dell’immigrato, Milano: Raffaello Cortina. (ed. or. La
double absence, Paris: Èdition du Seuil, 1999).
[8] Cfr., tra gli altri, Medici senza
Frontiere, 2005, I frutti dell’ipocrisia. Storie di chi l’agricoltura la fa
di nascosto, Milano: Sinnos Editrice; Ciniero A., 2015, "Crisi
economica e lotte autorganizzate.
Lavoro, sciopero ed esclusione dei braccianti a Nardò (2011-2015)"
in Sociologia del Lavoro 2015 n.4
(140), numero monografico Rappresentare i
“perdenti della crisi”. condizioni e strategie di rappresentanza dei lavoratori
vulnerabili, Eds. Bianca Beccalli, Enzo Mingione, Enrico Pugliese, Franco
Angeli, Milano.
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