Due uomini in cerca di lavoro durante la Grande Depressione americana del 1929 |
di Antonio Ciniero e Ilaria Papa
Il 20 maggio 1970 veniva promulgato lo Statuto dei Lavoratori, uno
dei più avanzati testi giuridici di tutela dei diritti dei lavoratori.
Nel 1997 viene promulgata la legge n. 196, più conosciuta come
pacchetto Treu, dal nome dell’allora ministro del lavoro e oggi presidente del
CNEL, l’ente che lo stesso Treu voleva abolirle fino allo scorso 4 dicembre.
Nel 2003 viene approvata la legge n. 30 (da alcuni chiamata
impropriamente legge Biagi).
Nel 2014 viene approvata la legge n. 183 (il cosiddetto
Jobs Act).
Non occorre essere esperti giuristi per accorgersi che la tutela
dei lavoratori che ogni legge prevede è inversamente proporzionale all’anno di
emanazione della legge stessa. Più è recente la legge, meno sono le tutele per
i lavoratori.
Nel corso degli ultimi quarant’anni la forza contrattuale dei
lavoratori ha conosciuto sempre maggiori forme di limitazione attraverso
l’introduzione di molteplici e meno garantite forme contrattuali - lavoro part-time,
formazione lavoro, apprendistato, lavoro temporaneo, lavoro a progetto,
collaborazione occasionale, lavoro intermittente, lavoro a chiamata, lavoro
ripartito, lavoro interinale, lavoro somministrato,… - e la soppressione di
alcuni importanti istituti giuridici di tutela dei lavoratori, come l’art. 18
dello Statuto dei lavoratori.
È un caso? È casuale che la riduzione dei diritti dei lavoratori
si accompagni di pari passo con la perdita della capacità di azione politica
degli attori collettivi (sindacati e partiti) in grado di rappresentare gli
interessi collettivi dei lavoratori?
È un caso che con il passare degli anni i processi di
impoverimento investano sempre più ampie fasce di popolazione nel nostro paese?
È un caso che tra le “nuove” forme di povertà compaiano proprio i
lavoratori, i soggetti in possesso di un lavoro?
È un caso che si continui a parlare di scomparsa delle
classi sociali?
Certo che se è un caso, tutti noi - lavoratori flessibili, disoccupati,
sottoccupati, occupati ad intermittenza, precari, “giovani” o con qualunque
altra etichetta volessimo individuare - siamo proprio sfortunati. Se invece non
è un caso, se tutto ciò è il portato delle politiche economiche neoliberiste,
se è conseguenza della ridefinizione dei rapporti di potere che sottendono il
vecchio, ma sempre attuale, conflitto capitale/lavoro, allora, forse, più che
sfortunati, siamo rassegnati e in parte indifferenti, schiacciati dai processi
di individualismo esasperato, corollario delle politiche neoliberiste, che
cercano di ridurre uomini e donne a meri consumatori o esecutori, senza alcuna
creatività.
Questo continuo processo di regressione dei diritti viene portato
sistematicamente alla luce dalle migrazioni contemporanee (incluse quelle a
livello intraeuropeo) che rendono evidenti le contraddizioni che attraversano
l’attuale modello di sviluppo economico. È anche per questo che proprio adesso
si assiste a un processo di criminalizzazione delle migrazioni e dei migranti
(compresi i migranti comunitari, si pensi a quanto sta avvenendo in
Inghilterra dopo il referendum sulla brexit) che non ha precedenti nella storia
recente. Ed è probabilmente per questo motivo che in Italia molte delle lotte
per i diritti del lavoro negli ultimi anni sono state portate avanti proprio da
lavoratori stranieri. Il lavoro dei migranti, maggiormente precarizzato,
diviene un elemento di tensione costante all’interno del lavoro contemporaneo.
È
dal lavoro, dal riconoscimento della centralità che esso occupa nelle contemporanee
società che bisognerebbe ripartire per costruire percorsi e strade da
intraprendere in grado di fornire un’alternativa praticabile
all’insostenibilità dell’attuale sistema politico ed economico, un’alternativa
che non potrà che essere meticcia.
Nessun commento:
Posta un commento