di Antonio Ciniero
Le
iniziative messe in campo dal neo ministro degli Interni, nonostante il
tentativo di presentarle come nuove, si pongono in perfetta continuità con gli
interventi in materia di politica migratoria e di governance dei flussi attuati dall’Italia e dall’UE da almeno un
trentennio. La vicenda della nave Aquarius mostra senza filtri il cinismo e
l’aspetto inumano della gestione delle migrazioni anche al grande pubblico, ma
non rappresenta un ribaltamento dell’approccio italiano alla gestione dei
flussi migratori degli ultimi anni.
Dall’adozione
degli accordi di Schengen in poi, la chiusura delle frontiere e la selezione
degli ingressi è stata, e continua ad essere, la bussola di tutti gli
interventi normativi in materia migratoria del nostro paese, come lo è delle
legislazioni nazionali di quasi tutti i paesi europei e dell’Ue nel suo
complesso.
Nel nostro
paese però, più che altrove, i vari tentativi di ridurre il numero degli
ingressi irregolari non solo sono sistematicamente falliti, ma hanno generato
un paradosso (solo apparente): quanto più le leggi diventavano repressive e
restrittive, quanto più erano orientate a ridurre la clandestinità, tanto più l’irregolarità di soggiorno cresceva (sia
l’irregolarità di ingresso, che la cosiddetta irregolarità sopraggiunta).[1] I
sedici anni di applicazione della cosiddetta legge Bossi-Fini lo hanno mostrato
chiaramente. Ovviamente non è casuale, e l’irregolarità in Italia è aumentata
più che altrove perché il nostro paese non ha, a differenza di altri paesi
europei, dei meccanismi di regolarizzazione permanenti, ma ha avuto solo
sporadiche sanatorie una tantum.
Le
politiche di chiusura delle frontiere, la restrizione dei canali d’ingresso
regolare, la precarizzazione della condizione giuridica degli stranieri e il
mancato riconoscimento dei diritti di cittadinanza hanno fatto sì che si instaurasse
una dialettica tra stato e mercato, in cui i processi che costringono i
migranti all’irregolarità e all’esclusione consegnano agli agenti economici un
utile strumento di svalorizzazione della forza lavoro: una situazione
utilissima a chi domanda lavoro, perché mette a disposizione una manodopera
priva di diritti da sottoremunerare ed utilizzare per incrementare i profitti.
Questa
situazione è nota e assodata da tempo negli studi in materia, le politiche di
chiusura delle frontiere, storicamente, più che ridurre il numero degli
ingressi, hanno, tutt’al più, contribuito a riorientare i flussi, soprattutto
nel breve e medio periodo. Si pensi a quanto avvenuto in Europa negli Settanta,
dopo l’emanazione delle cosiddette politiche
di stop da parte dei paesi dell’Europa centro settentrionale, o più
recentemente, nel 2016, dopo gli accordi tra UE e Turchia. Le politiche restrittive
però non sono in grado di ridurre gli ingressi nel lungo periodo perché la pressione
migratoria è indipendente dalle politiche migratorie. Questo è un dato di fatto
che non si può continuare ad ignorare.
La scelta riprovevole
di impedire ad una nave con oltre 600 persone a bordo di attraccare nei porti
italiani non avrà alcun effetto in termini di riduzione dei flussi, e men che
meno avrà effetti sulla ridefinizione delle politiche migratorie europee,
forse, anzi sicuramente, è stata utile, nell’immediato, solo a racimolare un po’
di consenso in un elettorato frustrato, e in parte stremato dalla crisi, e ad
infliggere sofferenza aggiuntiva a quelle 600 persone.
Anche il
vertice di oggi tra Macron e Conte va nella direzione della continuità con il
passato: Hotspot fuori dai confini europei, di fatto campi detentivi non
diversi da quelli che già esistono in Libia e in Turchia, dove un fiume di denaro pubblico europeo finanzia la sospensione dei
diritti umani, e revisione del trattato di Dublino, che, si e no, vorrà
dire discutere (inutilmente) di relocation… Insomma, nulla di nuovo da parte
del governo del cambiamento, solo,
come era prevedibile già dalla lettura del loro pseudo contratto, esasperazione
degli aspetti maggiormente repressivi, quelli più demagogici e che meglio si
possono spendere sui media e con le condivisioni dei social.
Se queste
sono le prime iniziative, è ovvio che il cambiamento, per lo meno per le politiche
migratorie, non verrà da questo governo.
Per un reale
cambiamento è necessario superare la logica dell’emergenza ed emanciparsi definitivamente
dalla filosofia dell’ordine pubblico. Abbiamo bisogno di un ripensamento
radicale delle politiche migratorie, capovolgendo la logica securitaria con cui
ci si è approcciati alle migrazioni fino ad oggi.
Per muovere
in questa direzione, sono indispensabili strumenti politici e normativi in
grado di misurarsi in maniera adeguata con la complessità del fenomeno
migratorio e non facili slogan razzisti e securitari.
È necessario
che si ponga in sede Europea la necessità di ragionare sulla possibilità di introdurre
un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro, valido sull’intero territorio
dell’Unione Europea. Oggi gli ingressi per motivi di lavoro sono di fatto
impossibili su quasi tutto il territorio europeo, e in Italia sono anni che non
si emana un decreto flussi ordinario. Nonostante ciò la domanda di lavoro che
si rivolge ai cittadini stranieri continua ad essere alta.
Per quanto
riguarda i richiedenti asilo bisogna chiedere con forza la semplificazione
delle procedure per il rilascio di permessi umanitari e dei ricongiungimenti
familiari per chi è costretto alla migrazione, anche questi validi sull’intero
territorio europeo. E bisogna farlo non perché si è buoni, o buonisti come amano ripetere i razzisti
italiani, ma perché tutti i paesi europei hanno sottoscritto la convenzione di
Ginevra.
Inoltre è
urgente una riforma del diritto di accesso alla cittadinanza, che, con grave
colpa tra le altre, la passata legislatura non ha approvato. Non è più
procrastinabile l’acquisizione della cittadinanza per jus soli per un paese in
cui sono già presenti oltre un milione di ragazzi e ragazze nati o cresciuti in
Italia non riconosciuti cittadini.
Per portare
avanti queste proposte politiche è necessario un reale cambiamento di
paradigma, abbandonando definitivamente i diktat politici dell’approccio
economico neoliberista. Sarebbero necessari interventi normativi ed economici
capaci di potenziare gli strumenti di tutela dei diritti dei lavoratori e gli
strumenti di welfare: avremmo bisogno di un nuovo new deal, senza il quale,
difficilmente, si potranno ridurre le sacche di cronica esclusione sociale che
produce l’attuale sistema economico-produttivo. Si tratta di interventi
politici da attuare sia a livello internazionale che nazionale, immaginando non
solo aggiustamenti marginali, ma un diverso modello di produzione e
redistribuzione della ricchezza, che rimetta al centro del discorso l’essere
umano e i suoi bisogni, superando la logica dominante del neoliberismo e
ristabilendo la priorità della società e delle relazioni sociali nei riguardi
dell’economia e delle dinamiche del mercato. Questioni, mi sembra, del tutto assenti
nel contratto di governo.
[1] il
Dossier Statistico sull’Immigrazione
curato da Idios, sottolineava già nel 2006 che due immigrati regolari su tre avevano
avuto un passato da irregolari.
Nessun commento:
Posta un commento