Antonio Ciniero
Diceva
Malcom X che se non fossimo stati attenti, i media ci avrebbero fatto odiare le
persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono.
Eppure
quello che è accaduto a Gorino il 24 ottobre va molto al di là di quella che
può essere solo una responsabilità dei media, del clima di intolleranza
costruito in Italia. Chiama in causa responsabilità di tutti, ad iniziare da
chi ha permesso che tutto ciò potesse accadere.
Probabilmente
anche quella che descrive Gorino come una comunità compatta e unita nel
razzismo è un’immagine, in parte, costruita e semplificata dal racconto mediatico
(sia mainstream che dei social), ma bisogna prendere atto che, fino ad oggi, la
voce della solidarietà - quella della gente comune, dalla cosiddetta società
civile alle parrocchie, dai collettivi alle associazioni, quella insomma che si
è storicamente attivata per supplire alle carenze istituzionali dello stato, e che
abbiamo conosciuto, per quanto riguarda l’accoglienza a cittadini stranieri,
sin dal marzo del 1991, quando gli uomini e le donne del brindisino accolsero gli
albanesi giunti nel porto della loro città – ecco, quella solidarietà a Gorino sembra
essere scomparsa o, se esiste, non ha trovato spazio per esprimersi. Per lo
meno pubblicamente.
Non è la
prima volta che il racconto mediatico veicola l’immagine di una comunità,
compattata dalla paura dello straniero, che si organizza per resistere alla
presunta invasione e per preservare il suo territorio. Era successo a Rosarno,
nella piana di Gioia Tauro, nel 2010, quando i braccianti africani si
ribellarono alle inumane condizioni di vita a cui erano sottoposti o, ancora, a
Manduria, in provincia di Taranto, nel 2011, quando venne istituita una
tendopoli denominata Centro di
Accoglienza e Identificazione, in cui furono “accolti”, dalla sera alla
mattina, circa 20 mila cittadini tunisini giunti in Italia sulle coste di
Lampedusa.
In entrambi i
casi (due tra i tanti esempi possibili), i primi racconti mediatici, erano stati
quasi unanimi nel descrivere le due comunità come impaurite, unite contro gli
stranieri, comunità in cui gruppi di cittadini si organizzavano, come
effettivamente accadde, per “difendersi” dagli stranieri[1]. Stranieri
che, in un caso, quello di Rosarno, mettevano
a ferro e fuoco la città; nell’altro, quello di Manduria, non si sapeva
cosa avrebbero potuto fare, ma che sicuramente
avrebbero turbato l’equilibrio e la serenità
della tranquilla cittadina. Basta riguardare i telegiornali o rileggere gli
articoli della stampa di quei gironi, per vedere quanto quel tipo d’immagine fosse
diffusa. Un’immagine però che fu messa in discussione nel giro di pochi giorni,
anche a livello mediatico, proprio dall’organizzarsi e dal venire fuori di
associazioni e reti di associazioni, parrocchie, attivisti, comitati di
cittadini autorganizzati, sindacati di base che presero la parola, supportarono
i migranti e, allo stesso tempo, contribuirono a creare un’altra narrazione.
A Gorino, a
distanza di oltre una settimana dai fatti, questo non è avvenuto. Non ho
elementi per spiegarne il motivo, ma il fatto che non sia avvenuto, che
pubblicamente non ci siano state voci contrarie a quella di chi non voleva sul
proprio territorio 11 donne e 8 bambini è un dato, preoccupante, di cui
prendere atto. Anche perché, quanto accaduto a Gorino, sta accadendo, da
diverso tempo, in tante altre realtà che non conoscono però la stessa
visibilità che ha avuto Gorino.
Le barricate,
le ronde, i comitati di protesta non sono certo stati inventati lo scorso 24
ottobre. Forse, nel caso di Gorino, questo assetto anti-immigrati ha raggiunto connotati
grotteschi e tragici allo stesso tempo: è affettivamente difficile vedere scendere
in strada trecento persone contro l’arrivo di altre 20, per di più donne e
bambini. Si sbaglierebbe però a considerare quanto accaduto una specificità del
piccolo borgo ferrarese. Anzi, derubricare quanto accaduto ad un evento
eccezionale, mi pare che non consenta di cogliere alcune contraddizioni che
investono l’Italia e che il “caso Gorino” esemplifica ed estremizza.
Nonostante
la retorica rassicurante degli italiani
brava gente, degli italiani immuni dal virus del razzismo in virtù del loro
passato, del popolo di santi, poeti e
navigatori, gli studi in materia, ci ricordano, da almeno un trentennio,
che l’Italia è un paese che conosce una preoccupante diffusione di pratiche e
atteggiamenti razzisti, tanto tra la gente quanto tra le sue istituzioni.
Si tratta di
pratiche la cui diffusione è indubbiamente favorita dal clima d’incertezza e
crisi vissuto dalla maggioranza dei cittadini, aspetto però che non deve, e non
può, in alcun modo, essere usato come elemento di giustificazione. La storia ci
ricorda come le più grandi crisi economiche e sociali dello scorso secolo siano
state il preludio per l’ascesa di movimenti reazionari e xenofobi divenuti
egemoni, grazie anche al malcontento popolare, e cristallizzatesi poi nelle
forme totalitarie che hanno tragicamente segnato la vita dei paesi europei e di
gran parte del mondo. Movimenti reazionari che, anche se in forme diverse, oggi
si ripresentano, conquistano consenso e che qualcuno, purtroppo anche a sinistra,
considera interlocutori con cui avviare percorsi politici per innescare
contraddizioni e cambiamenti sistemici.
Le
migrazioni sono sempre state processi complessi, capaci di disvelare
caratteristiche strutturali delle società globalizzate, tendenze
socio-politiche ed economiche che caratterizzano tanto i paesi di partenza dei
migranti, quanto quelli destinazione. Oggi, più di altri fenomeni, possono
rappresentare una cartina di tornasole attraverso la quale leggere tutta una
serie di contraddizioni che caratterizzano le società contemporanee.
Nel corso
degli ultimi decenni, la questione migratoria ha assunto una rilevanza centrale
all’interno del dibattito pubblico italiano (e non solo). Le migrazioni sono
state uno degli argomenti che maggiormente ha calamitato l’attenzione delle
principali competizioni elettorali nelle quali sistematicamente si è riproposto
un copione che indubbiamente è risultato vincente sul piano del consenso
elettorale: presentare le migrazioni, e i migranti, in primo luogo, come una
minaccia all’ordine pubblico e sociale del paese. In questo modo, da un lato,
si è potuto facilmente distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai
problemi del paese; dall’altro, si è trovato un facile capro espiatorio su cui scaricare la responsabilità delle
problematiche sociali. È un tipo di discorso che ha fatto breccia nell’opinione
pubblica fino a diventarne quasi senso
comune per larga parte.
È questo il frame nel quale, in Italia, hanno preso
forma le ultime leggi in materia migratoria, e quello che ha visto il venir
fuori di movimenti xenofobi e reazionari che hanno eroso consenso, anche in
quello che storicamente era considerato elettorato di sinistra.
Chiaramente
non è una situazione solo italiana: dagli anni Settanta, con la crisi dei
sistemi fordisti e l’affermazione delle dottrine neoliberiste, le migrazioni
sono state sempre più connotate negativamente e presentate come antagoniste al
nuovo ordine economico, politico e sociale. Di fronte alla presenza di nuovi
cittadini le società hanno risposto – sostanzialmente – in due modi: o con il
tentativo di assimilazione di coloro i quali fossero ritenuti utili e buoni attraverso un processo che tendeva a cancellare una diversità
che creava ansia e paura; oppure con l’esclusione, allontanando fisicamente e
socialmente gli stranieri, facendoli
sparire dalla stessa percezione e dall’orizzonte sociale attraverso dispositivi
e meccanismi legislativi tendenti a creare un perenne stato di eccezione. Si pensi ai meccanismi di legge che mantengono
artatamente in condizione d’irregolarità o rendono altamente precaria la
permanenza regolare dei migranti.
Il caso
italiano è un caso paradigmatico nel contesto europeo: fino a cinque anni fa, il
processo di depauperamento della capacità contrattuale dei cittadini stranieri avveniva
con una serie di strumenti legislativi restrittivi previsti dalla cosiddetta
Bossi-Fini, la n. 189 del 2002, che andavano dal dispositivo dell’arbitrio con
cui erano stabilite le quote di ingresso all’interno dei decreti flussi, quote
che invece che garantire nuovi ingressi servivano al più a regolarizzare una
piccola parte di coloro i quali erano già presenti in Italia, e che pur avendo
tutti i requisiti per risiedere regolarmente erano costretti all’irregolarità, al
contratto di soggiorno, passando per la reclusione all’interno dei Centri di
Identificazione ed Espulsione, vere e proprie fabbriche di irregolarità
amministrativa, oltre che luoghi di sospensione dei diritti.
Oggi, dal
2011, da quando, di fatto, è impossibile entrare in Italia per motivi
lavorativi, è il sistema di accoglienza pensato - è bene ricordarlo - dal
Ministro Maroni, che assolve a questo compito. Dal 2011, chiunque si occupi di
migrazioni sa che l’unico modo per entrare in Italia per un cittadino straniero
è quello di dichiararsi perseguitato politico ed entrare quindi all’interno di
un sistema fatto di hotspot, centri
di prima e/o seconda accoglienza e luoghi informali in cui i cittadini
stranieri sono costretti a svolgere la propria vita per un periodo di tempo più
o meno lungo, spesso passando da uno all’altro di questi luoghi, il più delle
volte in balia di eventi e circostanze di tipo kafkiano.
Gli effetti
principali dell’attuale sistema di accoglienza italiano, sia sul piano della
vita dei soggetti che su quello socio-economico, sono visibili nei tanti ghetti
che puntellano le traiettorie del lavoro agricolo stagionale in Italia. Luoghi
abbietti, abitati sempre di più da cittadini transitati dal sistema di
accoglienza italiano o, addirittura, da chi è ancora inserito all’interno del
sistema di accoglienza. Si tratta di masse di lavoratori assoggettati a pratiche
di sfruttamento feroce.
Il sistema
di accoglienza italiana (ed in generale anche quello europeo) non prende
minimamente in considerazione quella che è la volontà o il progetto migratorio
dei singoli, di conseguenza non può che incidere negativamente tanto sulla vita
dei cittadini stranieri costretti loro malgrado ad adattarsi a prassi che,
nella maggior parte dei casi, si configurano come uno degli elementi che
maggiormente mina il progetto migratorio dei singoli[2],
quanto sull’opinione pubblica, alla quale spesso sfugge il meccanismo di
funzionamento del sistema di accoglienza e rimane invischiata nella retorica
costruita politicamente e mediaticamente degli stranieri ingrati, anche questa non nuova nel caso italiano[3], ai
quali sarebbe garantito vitto e alloggio a discapito degli italiani e che,
nonostante ciò, non sarebbero nemmeno riconoscenti per quanto loro offerto. Una
retorica che fa il paio con quella, particolarmente cara al prefetto Morcone, e
avallata da tante realtà, anche di sinistra, del lavoro gratis svolto dai richiedenti asilo in diverse città in
cambio dell’ospitalità.
Tutto ciò,
come è facile capire, concorre alla creazione di uno sfondo, di un insieme di
assunti e luoghi comuni che contribuiscono, in maniera determinante, a
inferiorizzare i migranti trasformandoli in pedine sulle cui vite giocare la
partita del consenso elettorale. Si tratta di un’operazione particolarmente
performante, se è riuscita a trasformare 11 donne e 8 bambini in un nemico da cui difendere la comunità.
Nel vuoto
della politica istituzionale, il tema delle migrazioni e dei diritti dei
cittadini migranti è sparito dalle battaglie dei partiti. È rimasto quasi
esclusivamente nelle rivendicazioni di qualche leader desideroso di fare
scalpore e guadagnarsi voti con la demagogia della crociata contro gli invasori stranieri. Vent’anni di
approccio emergenziale e securitario hanno cambiato il senso comune della gente,
creando una falsa contrapposizione tra migranti e autoctoni, scaricando surrettiziamente sui migranti le tensioni
sociali e le paure interne alle società. In questo scenario, la battaglia per i
diritti dei cittadini migranti è sparita anche da una larga parte delle realtà
sociali, un tempo impegnate su questo tema, e oggi, in non pochi casi,
impegnate sul tema dell’accoglienza in maniera professionale.
La lotta per
i diritti dei migranti resta, in primo luogo e oggi più che mai, una battaglia
per i diritti di tutti, una battaglia intrecciata essenzialmente con la
questione dell’uguaglianza sociale e con l’idea di società che si vorrà
costruire. Qualcosa che non è più possibile continuare ad ignorare, soprattutto
a sinistra.
[1]
È bene ricordare che, nella quasi totalità dei casi, ad organizzarsi contro i
cittadini stranieri - nel caso di Manduria si arrivò a formare addirittura
delle ronde che sequestrarono alcuni cittadini stranieri - erano non semplici
cittadini, come si ripeteva da più parti, ma soggetti con simpatie e percorsi di
partecipazione in realtà politiche della galassia dell’estrema destra, da casa
paund al movimento sociale italiano. Anche nel caso delle rivolte di Gorino
appare esserci poco di spontaneo, anzi, ben guardare, è chiaramente
identificabile la matrice e la regia politica.
[2] L’obbligo di chiedere
asilo politico nel primo stato membro dell’UE previsto del trattato di Dublino
è uno degli esempli più eclatanti di ciò.
[3] L’accusa di
ingratitudine era per esempio una di quelle che più veniva mossa ai cittadini
albanesi negli anni Novanta, erano degli ingrati perché si lamentavano di
quanto era loro offerto, specie in relazione alle loro condizioni salariali, salvo
poi scoprire che quello offerto, molto spesso, era assai lontano dai minimi
sindacali.
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